La chimica delle relazioni

È sempre una questione di chimica. Non solo quando devi conquistare qualcuno a cena (e qui hai bisogno di ossitocina e serotonina), ma anche se vuoi collaborare in modo efficace con un collega (cortisolo e ancora ossitocina a palate), o fare la ramanzina a tuo figlio senza che si metta le cuffie (e qui ti serve l’adrenalina). Paolo Borzacchiello, esperto di intelligenza linguistica e comunicazione strategia, ci spiega come la nostra vita sia regolata e influenzata dagli ormoni prodotti dall’organismo, come si fa a regolarli, aumentarli e smorzarli in un sofisticato mix biochimico che possiamo imparare per promuovere fiducia, attenzione e benessere in chi entra in relazione con noi.

L’attenzione

È una qualità della mente ormai rara e preziosa. «Sommersi da un diluvio di informazioni, la nostra capacità attentiva negli ultimi 20 anni è diminuita drasticamente perché passiamo il nostro tempo con la testa nel cellulare», afferma l’esperto di comunicazione. «Non a caso la Treccani ha inserito il termine Smombies (dall’unione di smartphone e zombies) nella sua enciclopedia per indicare quelle persone che vivono attaccate a un display senza prestare attenzione al mondo circostante. Si calcola che la nostra concentrazione si attesti circa sui 9 secondi (paragonabile circa a quella di un pesce rosso). Dal punto di vista chimico, gli ormoni che possono darci una mano sono l’adrenalina e il cortisolo. Come si fa a stimolarli nel nostro interlocutore? Attivando il fonosimbbolismo, frame linguistici e categorie metaforiche specifiche. In pratica puoi cambiare spesso il ritmo, il tono e il volume della tua voce, utilizzare la lettera R e le consonanti dure, che agiscono sul cervello e sulle ghiandole surrenali per produrre adrenalina, e metafore che richiamino una sfida una battaglia. Usa le pause per enfatizzare un contenuto, chiama per nome chi hai di fronte, fagli cambiare posto con una scusa, mantieni il contatto visivo. Anche il look è importante: il colore rosso per esempio è un eccitante (può essere usato anche in un dettaglio: un braccialetto, degli occhiali). Essenziale anche la gestualità: movimenti secchi e decisivi (come indicare qualcosa o qualcuno) mentenfono alta la concentrazione di chi vi sta di fronte».

La fiducia

Quando siamo di ottimo umore, siamo più propensi a ricordare le informazioni e tendiamo a vedere il lato positivo delle situazioni. «Questo stato d’animo è dovuto a un mix di due ormoni: ossitocina e serotonina» spiega Paolo Borzacchiello. «Come si fa a indurre negli altri uno stato di fiducia? Partiamo dal linguaggio. Usa il modo indicativo invece del condizionale (per esempio: possiamo invece di potremmo) e metafore “incarnate” che richiamino il concetto di “arto”, “leggero” e “luminoso”: come “mi sento al settimo cielo”, “hai avuto un’idea brillante” o ancora “questo progetto decollerà sicuramente”. Poi sposta l’attenzione al tuo interlocutore in uno scenario futuro in cui riuscirà a raggiungere i suoi obiettivi attraverso una serie di domande. “Come ti sentiresti se…?” e il suo sistema endocrino farà il resto. Inoltre, la modulazione del parlto è un valido aiuto: un tono di voce né troppo alto né troppo basso e la presenza di pause adeguate. Per ottenere poi un rilascio di endorfine puoi sparigliare le carte e raccontare un aneddoto divertente o fare una battuta improvvisa. Per acquisire autorevolezza, bada alla postura: deve essere eretta e simmetrica, con volto e mento all’insù, facendo gesti ampi e circolari. È anche efficace il contatto fisico: metti una mano sulla spalla o sul braccio di chi ti sta vicino, annuendo. Infine è importante l’ambiente circostante: la presenza di arredi naturali come legno e perquet, di vadi e piante e di materiali come la pietra (che implica solitià) inducono sicurezza e fiducia».

Leggi l’articolo completo su Starbene

Non limitatevi ai fatti. Raccontate una storia!

Il marketing racconta balle

Crediamo tutti in cose che non sono vere. O per dirla in altri termini: molte cose sono vere solo perché ci crediamo. Le idee contenute in questo libro hanno fatto eleggere un presidente, fatto crescere associazioni non profit, creato miliardari e alimentato interi movimenti. Hanno anche portato a lavori grandiosi, appuntamenti divertenti e a qualche interazione che ha avuto una certa rilevanza. Ho visto questo libro nei quartieri generali di campagne politiche e a conferenze evangeliche. Ho anche ricevute email da persone che lo avevano letto e ne avevano applicato le idee in Giappone, nel Regno Unito e, sì, persino ad Akron, nell’Ohio.

Queste idee funzionano perché sono strumenti semplici per capire cosa accade quando le persone si imbattono in voi o nella vostra organizzazione. Ecco un riassunto della prima parte: crediamo tutti a ciò che vogliamo credere e, una volta che abbiamo preso una cosa per buona, diventa una realtà che si autodetermina. (Saltate avanti di qualche paragrafo per leggere la seconda parte, più critica, del riassunto.) Se siete convinti che il vino più costoso sia più buono, allora lo sarà. Se siete convinti che la vostra nuova capa sia più efficace, allora lo sarà. Se amate la tenuta di strada di un’auto, allora vi divertirete a guidarla.

Sembra un principio ovvio, ma se davvero lo è perché ancora tanti lo ignorano? Lo ignorano i professionisti del marketing, lo ignorano i comuni consumatori e lo ignorano persino i nostri leader. Se andiamo al di là del mero soddisfacimento dei bisogni, ci addentriamo nel complesso territorio del soddisfacimento dei desideri. E questi sono difficili da misurare e difficili da comprendere. Il che fa del marketing l’affascinante esercizio intellettuale che è. Ma ecco la seconda parte del riassunto: quando siete presi dal raccontare storie a un pubblico che vuole ascoltarle, sarete tentati di raccontare storie che non reggono. Bugie. Inganni. C’è stato un tempo in cui questo tipo di storytelling funzionava piuttosto bene. Joe McCarthy è diventato famoso per le bugie sulla “minaccia comunista”. Le aziende di acqua in bottiglia hanno fatto miliardi mentendo sulla maggior purezza del loro prodotto rispetto all’acqua del rubinetto nella maggior parte dei Paesi sviluppati.

Paolo Nespoli: vita, imprese (e gaffe) di AstroPaolo

ROI Edizioni Paolo Nespoli

Il Corriere della Sera svela un assaggio della vita e dei racconti di Farsi spazio, il nuovo libro di Paolo Nespoli. Dal 38 alla maturità fino alla Nasa: «Sullo Space Shuttle schiacciai per errore il pulsante rosso d’emergenza. Ma finì bene». Pubblichiamo una parte dell’articolo di Riccardo Bruno.

Sul joystick che pilotava lo Space Shuttle c’era un pulsante rosso. Andava usato in casi di estrema urgenza, quando tutti i tentativi erano falliti. Praticamente non andava mai premuto. «Naturalmente io l’ho schiacciato, accidentalmente ma l’ho schiacciato». Per fortuna era una simulazione, ma l’aspirante astronauta Paolo Nespoli poteva pagarla cara. Anche la carriera di un extraterrestre, tre viaggi in orbita, 313 giorni nello Spazio, è segnata da intoppi, momenti complicati e qualche errore. Una vita che AstroPaolo, 63 anni, ricostruisce nel suo ultimo libro Farsi spazio (Roi Edizioni). Un racconto sincero su come è riuscito a essere fedele alla risposta che diede a 12 anni. «Che cosa farò da grande? L’astronauta».

Anche se non sempre il buongiorno si vede dal mattino. L’uscita dal liceo scientifico non è brillantissima. Durante l’esame si mette a battibeccare con il presidente della commissione. Voto finale: 38 su 60. «Ero un diplomato “scarso”, di risulta. Due punti soltanto sopra il minimo che mi concesse non mancando di chiosare che quel voto mi avrebbe penalizzato per tutta la vita e insegnato a trattare con il potere costituito». Il giovane Nespoli è un «ribelle incallito», ma fa anche il chierichetto e l’animatore di oratorio. «Insomma ero Dottor Jekyll e Mr. Hyde».

Parte come militare di leva, diventa istruttore paracadutista, poi incursore nelle Forze speciali, sminatore in Libano. Periodo di formazione, ma non un mondo ideale. «All’epoca, fine anni Settanta — ricorda — le prevaricazioni dei nonni sulle reclute erano ben lontane dall’essere non dico debellate, ma anche solo biasimate». E ancora, a proposito dei corsi a Torino e a Cesano: «Nove mesi che mi regalarono un ulteriore assaggio se mai ne avessi avuto bisogno, di quanto ottusa, vessatoria e distaccata dalla realtà potesse essera la vita nell’esercito di allora».

È però anche occasione per incontri straordinari, come quello, proprio in Libano, con Oriana Fallaci, di cui da ragazzino aveva letto il libro sugli astronauti americani, la quale lo spinge a non abbandonare il suo sogno da bambino. Così, con i soldi messi da parte, si mette in aspettativa. Va a New York, impara l’inglese e si laurea in ingegneria aerospaziale. E grazie a un collega di corso ha un aggancio per entrare alla Nasa.

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