La chimica delle relazioni

È sempre una questione di chimica. Non solo quando devi conquistare qualcuno a cena (e qui hai bisogno di ossitocina e serotonina), ma anche se vuoi collaborare in modo efficace con un collega (cortisolo e ancora ossitocina a palate), o fare la ramanzina a tuo figlio senza che si metta le cuffie (e qui ti serve l’adrenalina). Paolo Borzacchiello, esperto di intelligenza linguistica e comunicazione strategia, ci spiega come la nostra vita sia regolata e influenzata dagli ormoni prodotti dall’organismo, come si fa a regolarli, aumentarli e smorzarli in un sofisticato mix biochimico che possiamo imparare per promuovere fiducia, attenzione e benessere in chi entra in relazione con noi.

L’attenzione

È una qualità della mente ormai rara e preziosa. «Sommersi da un diluvio di informazioni, la nostra capacità attentiva negli ultimi 20 anni è diminuita drasticamente perché passiamo il nostro tempo con la testa nel cellulare», afferma l’esperto di comunicazione. «Non a caso la Treccani ha inserito il termine Smombies (dall’unione di smartphone e zombies) nella sua enciclopedia per indicare quelle persone che vivono attaccate a un display senza prestare attenzione al mondo circostante. Si calcola che la nostra concentrazione si attesti circa sui 9 secondi (paragonabile circa a quella di un pesce rosso). Dal punto di vista chimico, gli ormoni che possono darci una mano sono l’adrenalina e il cortisolo. Come si fa a stimolarli nel nostro interlocutore? Attivando il fonosimbbolismo, frame linguistici e categorie metaforiche specifiche. In pratica puoi cambiare spesso il ritmo, il tono e il volume della tua voce, utilizzare la lettera R e le consonanti dure, che agiscono sul cervello e sulle ghiandole surrenali per produrre adrenalina, e metafore che richiamino una sfida una battaglia. Usa le pause per enfatizzare un contenuto, chiama per nome chi hai di fronte, fagli cambiare posto con una scusa, mantieni il contatto visivo. Anche il look è importante: il colore rosso per esempio è un eccitante (può essere usato anche in un dettaglio: un braccialetto, degli occhiali). Essenziale anche la gestualità: movimenti secchi e decisivi (come indicare qualcosa o qualcuno) mentenfono alta la concentrazione di chi vi sta di fronte».

La fiducia

Quando siamo di ottimo umore, siamo più propensi a ricordare le informazioni e tendiamo a vedere il lato positivo delle situazioni. «Questo stato d’animo è dovuto a un mix di due ormoni: ossitocina e serotonina» spiega Paolo Borzacchiello. «Come si fa a indurre negli altri uno stato di fiducia? Partiamo dal linguaggio. Usa il modo indicativo invece del condizionale (per esempio: possiamo invece di potremmo) e metafore “incarnate” che richiamino il concetto di “arto”, “leggero” e “luminoso”: come “mi sento al settimo cielo”, “hai avuto un’idea brillante” o ancora “questo progetto decollerà sicuramente”. Poi sposta l’attenzione al tuo interlocutore in uno scenario futuro in cui riuscirà a raggiungere i suoi obiettivi attraverso una serie di domande. “Come ti sentiresti se…?” e il suo sistema endocrino farà il resto. Inoltre, la modulazione del parlto è un valido aiuto: un tono di voce né troppo alto né troppo basso e la presenza di pause adeguate. Per ottenere poi un rilascio di endorfine puoi sparigliare le carte e raccontare un aneddoto divertente o fare una battuta improvvisa. Per acquisire autorevolezza, bada alla postura: deve essere eretta e simmetrica, con volto e mento all’insù, facendo gesti ampi e circolari. È anche efficace il contatto fisico: metti una mano sulla spalla o sul braccio di chi ti sta vicino, annuendo. Infine è importante l’ambiente circostante: la presenza di arredi naturali come legno e perquet, di vadi e piante e di materiali come la pietra (che implica solitià) inducono sicurezza e fiducia».

Leggi l’articolo completo su Starbene

«La strada della sostenibilità è irreversibile»

Il tema della sostenibilità e dell’innovazione secondo Federica Marchionni, ceo della Global Fashion Agenda e autrice di Una testa piena di sogni, da Il Sole 24 Ore un articolo di Giulia Crivelli.

« Ho lavorato in aziende che vivono di innovazione, ma ogni tanto mi sentivo dire di non esagerare, di non proiettarmi sempre e comunque nel futuro. Da quando lavoro con l’industria globale della moda sull’infinito tema della sostenibilità, le mie proposte, le mie idee vengono accolte, ma allo stesso tempo mi si chiede sempre di spingermi oltre, di osare ancora di più. Mi sembra quasi di sognare, tanto mi è congeniale questo modo di lavorare ».
In realtà, di sogni ne ha già fatti e realizzati molti Federica Marchionni, da pochi mesi ceo del Global Fashion Agenda (Gfa), la più importante organizzazione no profit sulla comunicazione della moda sostenibile. Il suo debutto è stato il mese scorso al summit di Copenhagen, dove vive (si veda Il Sole 24 Ore del 15 ottobre), ma torna spesso in Italia, anche per parlare, specie con platee di giovani, del libro autobiografico uscito il 22 ottobre, Una testa piena di sogni (ROI Edizioni). Federica Marchionni ha “solo” cinquant’anni, ma una lunga carriera di manager di aziende assolutamente profit, al contrario del Gfa: è stata vicepresidente di Ferrari, presidente di Dolce &Gabbana Usa, nonché prima donna italiana al vertice di una società quotata a Wall Street, il gruppo di abbigliamento outdoor Lands’End.

« Bisognerebbe prima chiarire standard di valutazione e misurazione, perché l’industria globale della moda è un universo estremamente variegato, ma non sbagliamo se diciamo che consuma molte risorse, energia e materie prime – spiega Federica Marchionni-. È però altrettanto vero che ogni anello delle diverse e lunghissime filiere del sistema, più o meno globalizzate, è consapevole della necessità di un cambiamento e disponibile a investire risorse economiche e culturali per farlo avvenire ».

Niente bla bla bla, insomma? « Summit come quello di Copenhagen, ma anche G20 e Cop26, non sono mai solo parole o proclami. Nel caso dell’industria della moda gli stimoli vengono però da ogni direzione: dai consumatori, specie i più giovani, agli investitori finanziari – aggiunge la ceo della Global Fashion Agenda -. Chi sta in mezzo, le aziende che producono e distribuiscono, devono trovare soluzioni innovative alle nuove esigenze. Di una cosa sono certa: il processo è irreversibile e ogni singolo passo avanti è positivo. Anzi, va bene pure fare due passi avanti e uno indietro, quello che conta è la direzione ».

Leggi l’articolo su Il Sole 24 Ore

Come coltivare idee “folli” nel proprio business?

Il sito Brink ha pubblicato un’interessante intervista a Safi Bahcall in cui racconta il suo libro Idee folli. Come coltivare le idee folli che vincono guerre, curano malattie e trasformano i mercati, di cui riportiamo la traduzione.

Qual è la differenza quelle che definisci “missioni incredibili” e ciò che potremmo chiamare “missioni lunari”?

Una missione lunare è una destinazione. Coltivare idee folli quelle che nessuno pensa funzioneranno, è il modo in cui arriviamo a quella destinazione. Ad esempio, quando il presidente John F. Kennedy dichiarò nel 1961 che avremmo mandato un uomo sulla luna entro la fine del decennio, quella era una missione lunare – un grande obiettivo di cui tutti potevano entusiasmarsi.

L’idea che ci ha portati sulla luna, tuttavia, è stata effettivamente sviluppata circa 40 anni prima da un uomo di nome Robert Goddard: propulsione a getto di carburante liquido. In altre parole, razzi. Quando il signor Goddard suggerì quell’idea negli anni ’20, fu ampiamente ridicolizzato. Il New York Times ha pubblicato un editoriale su come il signor Goddard non capisse le leggi fondamentali della fisica, che le leggi di azione e reazione di Newton significano che i razzi non potranno mai volare nello spazio. Non c’è niente contro cui spingere. Quattordici anni dopo la morte del signor Goddard, il giorno dopo il successo del lancio del razzo Apollo 11 sulla luna, il Times ha emesso una ritrattazione dicendo: “Apparentemente il volo missilistico non viola la fisica del XVII secolo. E il Times si rammarica dell’errore.”

Dichiarare un grande obiettivo “missione lunare” è una cosa gentile da fare. Ma ciò che è veramente importante è nutrire le idee folli, le intuizioni che sfidano le convinzioni accettate. Le grandi idee –quelle che finiscono per trasformare le industrie- vengono spesso trascurate e ignorate per anni o decenni. Dato che non c’era nemmeno una buona parola in inglese per quel tipo di idea, ne ho inventata una!

Sicuramente molte idee che sfidano le convinzioni esistenti meritano di essere ignorate. C’è una buona ragione per non prenderle in considerazione?

Vero. Se gestisci un’azienda, vuoi distinguere tra idee che non hanno ipotesi verificabili e idee che sfidano saggezze accettate, ma hanno ipotesi verificabili.

E come lo fai?

Devi accertarti che si tratti di un’ipotesi verificabile. Devi farlo perché hai la necessità nutrire quel tipo di idee all’interno della tua azienda, in particolare quando quelle intuizioni mettono in discussione le tue certezze – le tue convinzioni sulla tua attività o sui prodotti che sei sicuro siano vere. Non vuoi svegliarti una mattina e leggere che il tuo concorrente ha dimostrato che hai torto e che c’è un nuovo prodotto che ti arriva come una pallottola alla testa. Ma ormai è troppo tardi. Preferiresti di gran lunga scoprirlo presto, internamente, piuttosto che troppo tardi, da un concorrente.

Ad esempio, per molto tempo, l’idea di un farmaco che abbassi il colesterolo è stata ignorata in quanto completamente ridicola: ogni cellula del nostro corpo è fatta di colesterolo. Quell’idea ha dato vita alla classe di farmaci delle statine, che ha venduto, complessivamente, circa un terzo di un trilione di dollari. Oppure, ecco un’altra idea folle: realizzare un interruttore che non funzionasse tramite un filamento ma fosse piuttosto azionato all’interno di un dispositivo semiconduttore. Questo era considerato ridicolo. Ma è diventato il transistor, l’invenzione più importante del XX secolo.

E quelle idee folli non devono essere solo prodotti. Le idee folli della strategia – piccoli cambiamenti che tutti reputano insensati – possono rivelarsi enormemente preziosi. Ad esempio, c’era un ragazzo a cui piaceva la vendita al dettaglio, quindi aveva in programma di fare quello che tutti gli dicevano: “Vai dove ci sono tante persone, dove c’è traffico pedonale”. In altre parole, grandi città. Ma sua moglie voleva vivere in una piccola città, e gli disse: “Ti sosterrò finché andrai in città con meno di diecimila persone”. Al ragazzo piaceva la vendita al dettaglio, ma gli piaceva anche essere sposato. E gli piaceva la caccia alle quaglie. Così ha trovato Bentonville, Arkansas, una città che confina con quattro stati con quattro differenti stagioni di caccia alle quaglie, così avrebbe potuto cacciare tutto l’anno.

Quel ragazzo, ovviamente, era Sam Walton, e quel negozio ora si chiama Walmart. Non ha introdotto una nuova tecnologia, ma solo un cambio di strategia: aprire grandi negozi nelle zone rurali. Tutti dicevano: “È idiota andare dove non c’è gente e aprire un negozio. Cos’hai in testa?” Oggi, quasi tutti i suoi concorrenti sono scomparsi e se Walmart fosse un paese, sarebbe classificato al ventisettesimo posto nel mondo in base al PIL.

Una delle cose interessanti del tuo libro è che non è l’ennesimo testo sulla cultura aziendale, ma su come strutturare un’organizzazione. Ed è proprio la struttura di un’organizzazione a essere, spesso, un deterrente per queste idee.

La struttura guida la cultura. Per struttura intendo gli incentivi e i processi che crei. Ad esempio, se ricompensi il grado, incoraggerai una cultura politica: le persone abbatteranno le idee dei loro vicini per andare avanti. Se premi i risultati e un’intelligente assunzione di rischi, d’altro canto, incoraggerai una cultura innovativa. Questo è importante perché cercare di cambiare una cultura attraverso prediche e lusinghe è molto difficile, se non impossibile. Gli amministratori delegati che incoraggiano tutti a cantare kumbaya e tenersi per mano raramente ottengono i risultati sperati. C’è una citazione di Warren Buffett che dice, più o meno: “Una volta abbiamo detto che il 95% del comportamento è guidato da incentivi personali o collettivi. Ci sbagliavamo. La cifra è piùsimile al 99%. “

Puoi immaginarti l’adattamento della struttura per cambiare la cultura, pensando a un bicchiere d’acqua. Le molecole d’acqua possono essere completamente rigide, ghiaccio solido, o vagare liberamente, un liquido. Urlare alle molecole in un blocco di ghiaccio di sciogliersi non servirà a niente. Ma un piccolo cambiamento di temperatura può portare a termine il lavoro. Un piccolo cambiamento di temperatura può fondere l’acciaio.

Secondo te esiste una struttura ideale per realizzare queste idee?

In primo luogo, è importante tenere presente che, mentre il bicchiere d’acqua è un’analogia utile, i suggerimenti pratici provengono dalla scienza degli incentivi all’interno dei team e delle aziende. E la scienza alla base di questo quadro solleva un grosso problema.

Il fatto è che ci sono due fasi. In una fase, i gruppi abbracceranno nuove idee selvagge, perché questo è ciò che favoriscono i loro incentivi: la loro partecipazione al risultato è una gratificazione maggiore di qualsiasi vantaggio di rango – pensa, a tal proposito, alle startup. Nell’altra fase, i gruppi rifiuteranno idee promettenti ma rischiose e opteranno per più o meno le stesse – atte a far crescere il franchise principale – perché è ciò che favoriscono i loro incentivi.

È un problema perché le aziende devono fare entrambe le cose e allo stesso tempo. Devono mantenere il loro franchise principale in tempo, nel budget, nelle specifiche, altrimenti non avranno un’attività e il flusso di cassa per finanziare tutte quelle idee rischiose scomparirà. Ma hanno anche bisogno di sviluppare quelle nuove idee. Il problema è che un sistema non può mai essere in due fasi contemporaneamente. Un bicchiere d’acqua non può essere sia solido che liquido.

Tuttavia, c’è un’eccezione a questa regola. Proprio al culmine di una transizione, alla temperatura di 0°C, blocchi di ghiaccio si separeranno dalle pozze di liquido e coesisteranno. Non separatamente ma dinamicamente, con molecole che vanno avanti e indietro tra i due stadi. Tradotto in team e aziende, ciò significa che devi separare i tuoi artisti e creatori dai tuoi “soldati”. I primi lavoreranno sul nuovo, mentre i secondi si concentreranno sul nucleo del vostro business.

Questa è la parte facile. La parte difficile è gestire la tensione tra i due. Il punto di fallimento nella maggior parte delle innovazioni non è quasi mai nella fornitura di nuove idee: è nel trasferimento al campo. Con questo intendo portare le idee sul campo non troppo presto e non troppo tardi. E riportando feedback di alta qualità, poiché nulla funziona bene la prima volta e dunque torna in laboratorio, né troppo presto né troppo tardi. E farlo continuamente. In altre parole, le migliori aziende e leader si concentrano sulla gestione del trasferimento, non sulla tecnologia.

Questo è un breve riassunto, ma c’è molto di più. Il vantaggio di comprendere una transizione è che puoi iniziare a gestirla. È possibile identificare le piccole modifiche alla struttura che consentono di progettare team e aziende più innovativi. È l’equivalente di spargere sale sul marciapiede quando nevica. L’aggiunta di sale gestisce il passaggio da solido a liquido: abbassa il punto di congelamento. Esistono quattro parametri di controllo di questo tipo all’interno delle aziende, descritti in Idee folli, che ti aiutano a gestire la transizione da politico a innovativo.

Pensi che queste teorie siano applicabili solo alle culture liberali occidentali, o pensi che funzionerebbero anche in Cina?

Questa struttura si applica ogni volta che organizzi le persone in un gruppo con una missione e un sistema di ricompensa legati a quella missione, vale a dire ogni squadra e ogni azienda. Un sistema di ricompensa legato a una missione crea due forze concorrenti: la partecipazione al risultato contro i vantaggi del rango.

Queste due forze portano alle due fasi. Le migliori aziende creano strutture dove queste due fasi possono coesistere in equilibrio dinamico. In altre parole, hanno imparato a raggiungere uno stile di vita a 0°C.

Leggi l’intervista completa su Brink

Rita McGrath racconta La fine del vantaggio competitivo

Il sito strategy+business ha pubblicato un’interessante intervista a Rita McGrath in cui racconta il suo libro La fine del Vantaggio competitivo. Ne riportiamo una parte.

Rita McGrath pensa che sia venuto il tempo, per la maggior parte delle aziende, di abbandonare la ricerca del “Sacro Graal della strategia”: il vantaggio competitivo. Nessuna teoria e nessuna strategia pratica hanno tenuto il passo con i mercati di oggi, che sono relativamente senza confini e senza barriere, sostiene la professoressa associata della Columbia University Graduate School of Business. Il risultato è che il tradizionale approccio che prevede di costruire un business basato sul vantaggio competitivo, per poi rannicchiarsi per proteggerlo e spremerlo per farne profitti, non ha più alcun senso.

Questo è l’argomento centrale nel più recente libro di McGrath, La fine del vantaggio competitivo: Ripensare la strategia per muoversi più veloci del mercato, in cui entra per la prima volta nel ring della strategia aziendale.

[…]

Il concetto di vantaggio competitivo è diventato completamente inammissibile?

Bè, non lo è sempre, ma è insostenibile in sempre più settori economici. Pensavamo che l’ambiente competitivo fosse caratterizzato da un “equilibrio punteggiato”, con lunghi periodi di stabilità  periodicamente interrotti. Ora, però le interruzioni si stanno facendo sempre più vicine l’una all’altra. L’ambiente competitivo è in perenne movimento.

Perché sta accadendo questo?

Perché le barriere d’ingresso che una volta proteggevano le aziende sono cadute. La ragione più ovvia è la globalizzazione. I tuoi concorrenti non sono più solo le aziende in fondo alla strada: sono le aziende di tutto il mondo. Abbiamo assistito alla caduta delle regolamentazioni in molti settori. Abbiamo assistito all’ascesa della digitalizzazione che ha creato flussi istantanei di informazioni e mercati d’investimento incredibilmente rapidi. Ci sono una quantità di forze che si sono unite per far sì che le opportunità più attraenti siano più visibili per un numero maggiore di “player” e anche le risorse necessarie per perseguirle sono più disponibili. Tutte queste dinamiche fanno sì che sia veramente difficile mantenere un vantaggio competitivo per un lungo periodo di tempo.         

Come possono i leader determinare se i loro vantaggi competitivi stanno scomparendo?

I leader hanno bisogno di un processo che consenta loro di fare un passo indietro dal caos quotidiano e porre le domande giuste. Molte aziende, però, non hanno quel livello di rigore. Devono cercare segnali di avvertimento, ad esempio se stanno investendo in un’attività senza ottenere i giusti risultati.

Ci sono un certo numero di domande che possono fare. I loro nuovi concorrenti emergono da luoghi inaspettati? Oppure: ci sono aziende provenienti da altri settori che iniziano a mostrare interesse per il loro operato? Ci sono, all’ingresso, barriere tradizionali che stanno cadendo? I sostituti più economici dei loro prodotti si stanno facendo strada nel mercato? Questo genere di cose sono indicatori piuttosto forti del fatto che il vantaggio competitivo sta iniziando a svanire.

La perdita del vantaggio competitivo è una nuova dinamica nel mondo degli affari o è qualcosa che è sempre esistito?

Ci sono sempre state trasformazioni interne ai vari settore. Non viaggiamo più su carrozze trainate da cavalli e le telecomunicazioni sono ormai date per scontate. Ma ci sono anche aspetti nuovi. In passato, se volevi gestire una ferrovia, dovevi possedere tutte le risorse necessarie. Oggi, se vuoi competere con la Fortune Global 500, puoi ottenere i tuoi sistemi informatici da Amazon, i tuoi programmatori da oDesk, e così via. Puoi assemblare le risorse molto, molto rapidamente e poi smontarle. La capacità di sfruttare risorse che non possiedi è un fenomeno relativamente nuovo.

Quali sono le conseguenze per la struttura organizzativa?

Se pensi al vantaggio competitivo come a qualcosa di transitorio, organizzerai la tua azienda in un modo molto diverso. Starai molto attento a non far stabilizzare troppo il tuo sistema organizzativo, perché troppa stabilità può essere pericolosa. I dirigenti di Infosys, uno dei casi eccezionali che cito nel libro, riorganizzano l’azienda ogni due o tre anni, che ne abbiano bisogno o meno. Non vogliono stabilizzarsi troppo in un certo modo di lavorare, perché dà luogo a una resistenza sistemica.

Ciò significa che la struttura scelta da un’azienda non è tanto importante quanto il suo sconvolgimento periodico?

Non credo che esista una struttura organizzativa perfetta. Ma sfortunatamente tendiamo a percepire la riorganizzazione come una cosa negativa. Le aziende utilizzano le strutture come mezzo per raggiungere un fine: coordinare le attività, acquisire e condividere informazioni e ottenere le giuste competenze per affrontare il problema giusto. Non c’è niente di sbagliato nel cambiare struttura.

Ma c’è una sfumatura. In un ambiente in rapida evoluzione, le strutture che richiedono flussi di informazioni molto pesanti o che sono molto gerarchiche rallenteranno un’azienda. Uno dei test che Paul Strassmann, professore di Scienze dell’Informazione della George Mason University, usa sempre quando esamina l’efficienza di un’organizzazione, è quanti scambi di informazioni sono necessari per rispondere a una domanda, come un ordine o una richiesta di un cliente. Più scambi significano tempi di risposta più lenti. Questo è un test interessante della flessibilità della tua organizzazione.

In un mondo in cui riconosci che i vantaggi sono temporanei, farai diversi compromessi. Sceglierai la flessibilità rispetto all’ottimizzazione, anche se devi rinunciare a un po’ di margine per farlo. (L’esempio classico è Amazon. Da anni ormai, ha valutato la crescita e la flessibilità più importanti dei suddetti margini, e questo rende molto, molto difficile competere contro Amazon). Sceglierai persone che sono istruite piuttosto che persone profondamente specializzate. Penserai alla tua posizione competitiva in termini di “arene” piuttosto che di settori.

Qual è la differenza tra un’arena e un settore?

Quello di “settore” è un concetto molto tradizionale nella strategia aziendale. L’economia dell’organizzazione industriale afferma che la struttura del settore determina la redditività delle aziende al suo interno e le aziende con posizioni favorevoli all’interno di un settore supereranno quelle con posizioni meno favorevoli.

Direi che è un’idea pericolosa perché in molti casi la concorrenza più significativa che dovrai affrontare verrà da altri settori, non dal tuo. Guarda le trasmissioni televisive, il giornalismo sulla carta stampata e ciò di cui mi occupo io, l’istruzione. La concorrenza più significativa per la Columbia probabilmente non sarà Stanford: sarà qualcuno con una grande idea su come trasformare l’istruzione in un gioco.

È ancora importante guardare al tuo settore, ma dovresti anche pensare a quelle che io chiamo “arene”: vasche di risorse contese da vari player. Un rapporto del Wall Street Journal ha osservato che dal 2007, quando è stato introdotto per la prima volta l’iPhone, al 2012, la spesa delle famiglie negli Stati Uniti per le comunicazioni è aumentata dell’11% mentre la spesa per le auto è diminuita. Quindi, se sei una casa automobilistica e ti stai confrontando con altre case automobilistiche, ti manca completamente questo confronto. È necessario esaminare “l’arena della spesa familiare indirizzabile” e chiedersi come realizzare auto che siano molto rilevanti per le famiglie americane. Devi chiederti se la tua azienda dovrebbe rimanere nel settore automobilistico o magari diversificarsi in un altro settore di attività con migliori prospettive. Penso che inizieresti a fare domande diverse e inizieresti a ripensare dove la tua azienda aggiunge valore e dove no.

[…]

Ne parli come di una “strategia di riconfigurazione continua”. È una forma di diversificazione?

Le tradizionali strategie di diversificazione cercano attività che seguano ritmi diversi. Quando uno è in calo, l’altro è in rialzo e puoi ancora mostrare ai tuoi azionisti un andamento costante. Ciò di cui sto parlando è il presupposto che tutte le tue attività vanno e vengono e, pertanto, le tue mosse di diversificazione devono mirare a creare piattaforme per sfruttare nuove opportunità man mano che si presentano.

[…]

In un ambiente di vantaggio temporaneo, è necessario essere in grado di riconfigurare risorse, persone e capacità per passare da un’opportunità all’altra man mano che il vantaggio cambia. Ciò richiede un “morphing” (mutamento fluido) continuo anziché un ridimensionamento o una ristrutturazione estremi.

La riconfigurazione continua non rappresentala maggiore sfida per la gestione del cambiamento?

Se cerchi “gestione del cambiamento” su Google, ottieni qualcosa come 21 milioni di citazioni. Per me, questo simboleggia il fatto che gli esseri umani non sono a proprio agio nel caos.

Le aziende devono fornire una certa stabilità nel mezzo del cambiamento. Devono sussistere due aspetti. Da una parte, le persone devono poter contare sui propri leader e sui valori dell’azienda. Devono avere una comprensione comune di ciò che è all’interno della strategia e di ciò che ne fa parte. Occorre chiarezza sulle relazioni e sullo sviluppo delle persone. Queste cose forniscono stabilità. D’altra parte, devono essere spinte a evitare l’autocompiacimento, a provare cose nuove e mettersi in gioco. Parte delle abilità che contraddistinguono una leadership efficacie è essere in grado di fornire entrambi questi aspetti. Un buon leader sta provocando il cambiamento e offrendo alle persone qualcosa su cui poter contare allo stesso tempo.

Atmos Energy, un altro dei casi eccezionali, che cito nel libro, lo ha fatto abbastanza bene. Il suo amministratore delegato, che ha rilevato l’azienda quando si trovava in cattive condizioni, ha creato intenzionalmente una cultura di alte prestazioni e cambiamento. L’azienda ora gestisce un business energetico regolamentato e uno non regolamentato: due modelli di business molto diversi con driver molto diversi, eppure sono in grado di lavorare insieme in modo coerente.

Un’altra sfida posta dal vantaggio competitivo transitorio è la necessità di disimpegnarsi dalle imprese. Come dovrebbero avvicinarsi le aziende a questo?

Quando è il momento di disimpegnarsi, devi scegliere la strada giusta. Se hai costruito qualcosa di buono, questo potrebbe essere davvero prezioso per qualcun altro (…) Se l’azienda sta morendo, come Internet dial-up o la telefonia fissa, è necessario capire come ammortizzare i propri asset e andarsene.

Questa è la parte triste della storia di Kodak: i suoi leader hanno avuto tutto il tempo per staccarsi dal mondo del cinema, e hanno davvero cercato di disimpegnarsi. Hanno cercato di entrare nel digitale, nel settore farmaceutico e in altre attività. Ma il peso del business del cinema li ha ostacolati. Non riuscivano a smettere di aggrapparsi a quello che era il loro business principale.

Perché Kodak non ha potuto disimpegnarsi dal mondo del cinema?

Fallimenti come questo, di solito hanno un’origine complicata. Per prima cosa, il mondo del cinema era così longevo e redditizio che la maggior parte delle persone al potere ne erano legate in modo molto profondo e non potevano voltargli le spalle, anche quando sapevano che avrebbero dovuto. Inoltre, Kodak era stata così brava nel settore cinematografico per così tanto tempo che non sapeva come essere brava in nient’altro. Un’altra cosa unica di Kodak è la sua posizione a Rochester, N.Y. Penso che diventi molto difficile vedere cosa sta succedendo nel resto del mondo quando sei fisicamente separato da esso. I segnali ambientali in un posto come Rochester sono che va tutto bene.

Poi c’è Fuji Photo Film. Mentre Kodak affondava, Fuji cercava avidamente opportunità di sviluppo e, allo stesso tempo, estraeva risorse da opportunità esaurite. In questo c’è un dinamismo che manca nella strategia convenzionale. L’azienda tradizionale investe un’enorme quantità di risorse nella sua strategia e poi cerca di difenderla. Fuji è meno sulla difesa e più sulle opportunità.

Perché Fuji potrebbe fare quella transizione quando Kodak no?

Il motore principale sono stati in realtà il CEO e il team esecutivo. Quando Sony ha introdotto la prima fotocamera digitale, i leader di Fuji erano già convinti che fosse l’onda del futuro e non volevano essere lasciati indietro. Nel 1999, uno dei loro dirigenti senior disse a Businessweek: “Il digitale è come una religione per noi”.

I leader di Fuji hanno tagliato i budget delle divisioni associate allo sviluppo della fotografia classica e hanno investito nel digitale e in altre nuove attività in cui le loro capacità erano più rilevanti.

[…]

Come deve cambiare la mentalità della leadership se il vantaggio competitivo non è più sostenibile?

I leader devono uscire dalla modalità difensiva ed essere onesti. Ci sono due cose che sento dire dai dirigenti anziani che mi fanno rizzare i piccoli peli sulla nuca.

Il primo è “non portarmi sorprese”, che dovrebbe significare “raggiungi i tuoi obiettivi”. Ma quando le sorprese sono sviluppi imprevisti, come un nuovo concorrente proveniente da fuori campo, i leader devono sentirne parlare o potrebbe essere fatale.

Il secondo è: “Non portarmi un problema senza una soluzione”. Ciò ha perfettamente senso in un mondo in cui sappiamo sempre cosa dovremmo fare. Ma in un mondo in cui accade l’imprevisto, se non posso portarti un problema per cui non ho una risposta, indovina un po’ : non ne sentirai parlare fino a che non sarà troppo tardi.

I leader devono essere molto più aperti alle informazioni e accogliere le notizie, anche se si tratta di cattive notizie. Dovrebbero essere schietti e indagatori e un po’ meno concentrati sull’eccellenza operativa.

[…]

Se la natura del vantaggio competitivo sta cambiando, le business school devono cambiare il curriculum strategico?

Ci penso molto. Nei corsi di strategia MBA viene insegnata l’analisi delle “cinque forze”, l’attenzione da prestare al settore e il vantaggio che deriva dal fare la prima mossa. Come educatori e come persone che si dedicano a pensare alla strategia in modo olistico, abbiamo bisogno di più strumenti. Spero che il mio libro ci supporti in un percorso di innovazione. Penso che dobbiamo porre maggiormente l’accento sull’identificazione delle opportunità e sul disimpegno dalle attività in declino. Oltre all’analisi del settore, dovremmo insegnare l’analisi dell’arena. E dobbiamo creare un posto nel mix per la Tecnologia dell’Informazione. Per me, la prossima ondata di lavoro nel campo della strategia è sviluppare rigorosamente il kit di strumenti di cui le aziende avranno bisogno per questo nuovo e coraggioso mondo di vantaggi.

Leggi l’intervista completa su strategy+business

Il tuo carrello
  • Non hai prodotti nel carrello.
Spedizione gratuita in tutta Italia
Resta aggiornato
Iscriviti alla newsletter

Ricevi notizie sulle nuove uscite e gli eventi della casa editrice, contenuti interessanti e promozioni

Resta aggiornato
Iscriviti alla newsletter

Ricevi notizie sulle nuove uscite e gli eventi della casa editrice, contenuti interessanti e promozioni