“Il marketing salverà il clima”

Pubblichiamo l’intervista a Seth Godin uscita su la Repubblica a cura di Vittorio Emanuele Orlando in occasione della pubblicazione, in Italia del Carbon Almanac, libro nato da un progetto collettivo e volontario di cui Godin è protagonista, coordinatore e curatore.

Che cosa spinge un guru del marketing, che ha all’attivo libri che hanno venduto milioni di copie, da Questo è il marketing a La mucca viola, bestseller tradotti in più di 35 lingue; uno che ha un blog tra i più seguiti del web; uno che, in ultima analisi, ha avuto successo planetario proprio convincendo le persone a consumare di più, a convertirsi alla sostenibilità, ideando, coordinando e promuovendo in tutto il mondo una guida al cambiamento climatico? Lo chiediamo al protagonista, il 62enne Seth Godin mentre esce in Italia Carbon Almanac, nato da un post sul suo blog a seguito del quale ha mobilitato e coinvolto 300 persone, dagli scienziati – una quindicina di italiani – ai fumettisti, in più di 40 Paesi.

Perché un esperto di marketing diventa un attivista ambientale?

«Il marketing sta cambiando, racconta storie vere che si diffondono, che danno alle persone la possibilità di fare la differenza. E il clima ha un problema di marketing. Siamo stati convinti a credere a cose che semplicemente non sono vere e siamo stati persuasi a non fare nulla. Se le persone sanno costa sta realmente accadendo possono fare scelte diverse. Questo è il progetto più importante della mia carriera: cosa c’è di più importante che mettere le mie conoscenze di marketing al servizio di un futuro migliore?».

Chi altro contribuisce al progetto?

«La magia di questo Almanacco è in uno dei nostri sottotitoli: “Controlla il nostro lavoro. Non prendere queste parole per oro colato.” Di conseguenza, non avevamo bisogno di esperti di clima nel gruppo (anche se ne avevamo molti). Ciò di cui avevamo bisogno erano persone che potessero prendere i dati, i documenti e i fatti e raccoglierli, organizzarli e renderli comprensibili. Abbiamo designer, esperti di grafica, matematici, leader di comunità e, soprattutto, persone come me e come voi».

Perché la formula dell’almanacco?

«Gli almanacchi sono raccolte di verità. Sono intrinsecamente disordinati, in quanto una raccolta di fatti non può mai essere perfettamente organizzata. Adoro gli almanacchi perché possono essere sfogliati in qualsiasi modo scegliamo, non c’è un inizio o una fine».

Come concilia il suo essere un’autorità nel campo del marketing con il fatto che il nostro modello di consumo va ripensato profondamente?

«Semplice: sono un ipocrita e lo sono anche tutti gli altri. Ma se aspettiamo un perfetto organizzatore o leader o anche un partecipante senza macchia, aspetteremo molto tempo. Come scrive Brian Eno nell’Almanacco: “Si cerca di evitare l’ipocrisia, ma non è il peccato peggiore. Il compromesso è inevitabile, e infatti dovrebbe essere incoraggiato”. Il pianeta non ha bisogno che smettiamo di consumare. Ha bisogno di noi per valutare il carbonio in modo equo. Abbiamo tutto ciò che serve per risolvere questo problema, e possiamo farlo cambiando il modo in cui consumiamo invece di decidere di vivere in una grotta senza fare nulla».

Leggi l’articolo completo su la Repubblica

Se non ora, quando?

Hey, buongiorno, qui è Seth Godin.

Vi parlo da un lago nell’Algonquin Park, in Ontario, Canada. È bellissimo quassù. Dodicimila anni fa questo lago era ricoperto da due chilometri di ghiaccio. Non sarebbe stato possibile vivere qui, neanche volendo, e provarci sarebbe stata dura.

Il tempo cambia ogni giorno, e il clima cambia da quando esiste questo pianeta. Ma pensando ai dodicimila anni, è rilevante pensarli come cinquemila generazioni: una madre che ha un figlio, che a sua volta ne ha un altro, e un altro ancora, e così via per cinquemila volte. È moltissimo tempo per adattarsi a cambiamenti di questo genere. Ma ora il clima cambia a tutta un’altra velocità, cambia molto prima che riusciamo a rendercene conto, cambia nel corso degli anni, di decennio in decennio, non più in decine di migliaia di anni.

Il problema non è che non abbiamo più tempo, ci siamo sì vicini, ma abbiamo ancora tempo. Il problema è che non ne stiamo parlando, non stiamo cambiando il sistema, è che siamo stati sedotti da cose come l’impronta di carbonio e le promesse sul riciclo, ma ci sono ancora moltissimi fatti che possiamo imparare, e dopo averli imparati possiamo parlarne, e parlandone possiamo migliorare le cose.

Io sono un volontario, e ho lavorato con altri trecento volontari per creare il Carbon Almanac, e sono davvero felice che stia uscendo, ora, in Italia. Potete comprarne una copia, cinque copie, dieci copie, e condividerle. È totalmente verificato e completo di note a piè di pagina, non abbiamo inventato niente, nessuno dei consigli che vi troverete è inventato. Invece, come si fa per ogni almanacco, abbiamo documentato tutto ciò che abbiamo scritto con più di mille fonti e risorse, potete controllarlo.

Questo Almanacco è stato creato per persone come voi, per persone a cui importa e che vogliono fare la differenza, per voi che volete condividere ciò che avete imparato e dare inizio ad una conversazione fortemente necessaria, perché se non ne parliamo non possiamo migliorare le cose. No, non è ancora troppo tardi, ma dobbiamo affrettarci, e dobbiamo cambiare il sistema se vogliamo fare la differenza.

Grazie per voler essere parte del cambiamento, per prendere a cuore questo argomento e per provare a migliorare.

Scarpe gratis e zecche è il futuro che ci attende

A poche settimane dall’uscita del libro, pubblichiamo un estratto dell’articolo di Giuliano Aluffi per Il Venerdì di Repubblica su Immagina, di Jane McGonigal, la game designer e futurologa che insegna a prevedere il futuro inimmaginabile.

“È difficile fare previsioni, soprattutto sul futuro», ironizzava Niels Bohr, Nobel per la fisica nel 1922. Eppure, cent’anni dopo, c’è qualcuno che della futurologia ha fatto una professione. Sono gli esperti dell’Institute for the Future di Palo Alto: producono previsioni per enti come il governo Usa o la Banca Mondiale, per i prossimi 10, 20, 30 anni su temi come il lavoro, l’innovazione nel cibo o nei costumi, la salute globale: nel 2010 hanno previsto, per il 2020, una pandemia che avrebbe ridotto tutti in mascherina, avrebbe causato ribellioni antivaccino e diffusione virale di fake news. Come fanno?

«Il metodo più efficace è la simulazione sociale: consiste nel connettere centinaia di persone tramite una piattaforma simile a Twitter e dire loro: “Immaginate di essere nel 2032 e scambiatevi messaggi su ciò che vedete e ciò che succede attorno a voi”» spiega la futurologa Jane McGonigal dell’Istituto californiano, autrice del saggio Immagina. Giochi, scenari e simulazioni per viaggiare nel tempo e prepararsi al futuro (Roi edizioni). «Dallo scambio di visioni dei singoli emergono scenari che nessun futurologo potrebbe figurarsi».

Un esempio è la possibile evoluzione della sindrome Alpha-Gal, un’allergia alla carne rossa che si scatena in seguito al morso di una zecca. «Negli Stati Uniti oggi abbiamo oltre 34 mila casi. Per il Cdc abbiamo predisposto alcuni scenari futuri: in uno di questi nel 2035 sono 250 milioni le persone colpite in tutto il mondo, per la prima pandemia da zecche. I cambiamenti in quel caso sarebbero enormi: il 25 per cento delle persone diventerà, per precauzione, vegana. E i sani eviteranno parchi e spiagge, mentre i proprietari di cani abbandoneranno i loro animali per non rischiare».

Sembra assurdo? «Ogni affermazione utile sul futuro all’inizio deve sembrare ridicola» spiega McGonigal.

Leggi l’articolo completo su Il Venerdì di Repubblica

Sebastiano Zanolli. Il conflitto genera energia ma servono ascolto e rispetto.

A poche settimane dall’uscita del nuovo libroGuerra o pacedi Sebastiano Zanolli, pubblichiamo una sua intervista per Il Giornale di Vicenza, a Stefano Tomasoni.

Se vuoi la pace non preparare la guerra, prepara il conflitto. Ma preparalo bene, in modo che diventi occasione di confronto costruttivo. Perché guerra e conflitto sono cose diverse: la prima è fatta con la volontà di annientare un nemico, il secondo serve a mettersi in discussione per trovare soluzioni condivise. Sebastiano Zanolli, bassanese, esperto di gestione del cambiamento, muove da questo assunto per sviluppare il tema alla base del suo ultimo libro dal titolo e dal contenuto mai così attuale e adatto ai tempi: “Guerra o pace” (ROI Edizioni, 180 pagine). Il libro sarà presentato oggi, 4 maggio, a Valdagno (Palazzo Festari, alle 20.30) con il team Guanxinet.

Zanolli, lei per mestiere lavora nelle aziende sul piano della motivazione: perché ha sentito il bisogno di parlare di guerra, di conflitto e di pace?
Perché negli ultimi anni ho notato che sempre di più le aziende mi chiamavano per problemi che avevano a che fare con la conflittualità tra le persone. Mi sono chiesto: ma è poi vero che in azienda dev’esserci sempre un’atmosfera di letizia e armonia come se fossimo in un monastero? Nessuno dice che debba esserci troppa tensione, ma nemmeno troppo poca, perché altrimenti non si generano soluzioni creative.

E il tema del conflitto come porta al titolo, “Guerra o pace”?
Il libro è stato stampato prima che iniziasse la guerra in Ucraina. Ho pensato di intitolarlo così perché la parola conflitto viene spesso usata in alternativa alla parola guerra, invece sono concetti diversi. La guerra prevede la distruzione dell’avversario, a volte anche a scapito della propria stessa incolumità. Il conflitto invece è una situazione che può essere di attrito, ma in quanto tale genera un’energia che, se ben diretta, può essere usata per comprendere le istanze delle parti e generare una soluzione addirittura migliorativa.

A quali condizioni il conflitto diventa positivo?
Le condizioni sono quelle dell’ascolto e del rispetto della parte antagonista, accettando una regola aurea: non faccio nulla che non vorrei fosse fatto a me. Ecco allora che nel conflitto si cresce e si migliora. Senza dare per assodato che tu abbia torto. Oggi invece siamo in una società che tende a creare fazioni che si danno continuamente ragione e tendono a screditare la controparte.

Succede in particolare nei social, dove il “tutti contro tutti” è ormai la regola.
Si tratta di un conflitto disfunzionale perché non permette la creazione di alcunché di nuovo. Oggi è più facile che questo avvenga proprio per via degli strumenti nuovi che creano situazioni di eco, nelle quali si parla soltanto con quelli che la pensano allo stesso nostro modo.

Leggi l’articolo completo su Il Giornale di Vicenza

Il luogo in cui lavoriamo influisce su come lavoriamo

In occasione dell’uscita del suo libro La mente estesa per ROI Edizioni, pubblichiamo un precedente articolo di Annie Murphy Paul, tradotto da Andrea Sparacino per Internazionale. “La nostra cognizione è distribuita in tutto l’ambiente” e per questo diventa fondamentale creare un luogo di lavoro che ci aiuti a pensare.

Nell’estate del 2001 Sapna Cheryan si era appena laureata e cercava un tirocinio in una azienda tecnologica della Bay Area, in California. Oggi ricorda che una società, in particolare, aveva un ambiente di lavoro che somigliava allo scantinato di un maniaco dei computer, con pupazzetti e pistole Nerf e un modello del Golden Gate costruito con lattine di bibite. A Cheryan sembrava che il contesto fosse ideato per promuovere un’idea discriminante del dipendente ideale dell’azienda. Come giovane donna di colore, Cheryan si sentì poco accettata, persino respinta. E così preferì un’altra azienda, con un ambiente di lavoro luminoso e accogliente. Cinque anni dopo, la tappa successiva della carriera di Cheryan fu l’università di Stanford, in California, dove cominciò un dottorato sui segnali concreti che influiscono sul modo in cui pensiamo e ci sentiamo. Come Cheryan, un numero sempre maggiore di psicologi e scienziati cognitivi contesta l’idea secondo cui il cervello umano è simile a un computer. I computer sono indifferenti all’ambiente circostante. Un laptop funziona sempre nello stesso modo, che si trovi in un ufficio dalle luci fosforescenti o in un parco. Lo stesso non si può dire del cervello umano. Cheryan e altri ricercatori hanno dimostrato che le performance del cervello sono estremamente sensibili al contesto in cui l’individuo opera.

Queste ricerche appaiono particolarmente rilevanti nel momento attuale. Durante la pandemia molti di noi sono stati improvvisamente costretti a lavorare e studiare in ambienti diversi dal solito, e così l’effetto del contesto è finito al centro dell’attenzione. Ora, mentre alcuni di noi stanno per tornare in ufficio o a scuola, abbiamo l’opportunità di ripensare questi spazi seguendo le scoperte dei ricercatori. Se coglieremo l’occasione, potremo notare grandi cambiamenti.

Ispirata delle proprie esperienze, Cheryan ha concentrato la sua ricerca su un aspetto particolare dell’ambiente circostante, ovvero quelli che gli psicologi chiamano segnali di appartenenza. Si tratta di segnali incorporati nello spazio che ci circonda che comunicano agli occupanti se sono ben accetti o meno. In un esperimento Cheryan e i suoi colleghi hanno utilizzato una parte dell’edificio dell’università di Stanford dedicato all’informatica per creare due diverse aule, che hanno chiamato aula stereotipica e aula non-stereotipica. La prima era piena di poster di Star Trek e Star Wars, libri di fantascienza e lattine di bibite. Nella seconda c’erano poster naturalistici, romanzi classici e bottiglie d’acqua.

Dopo aver trascorso pochi minuti nell’aula stereotipica, i laureandi maschi bianchi hanno manifestato un elevato livello di interesse rispetto alla ricerca informatica. Le studenti erano meno interessate, ma la loro curiosità è cresciuta notevolmente (superando quella degli uomini) dopo aver trascorso un po’ di tempo nell’aula non-stereotipica. Le successive ricerche di Cheryan hanno dimostrato che le studenti esposte a un’aula virtuale non-stereotipica manifestavano una maggiore fiducia nelle loro potenzialità informatiche rispetto a quelle che erano state esposte all’aula stereotipica. Gli studenti maschi, invece, hanno manifestato la tendenza ad avere fiducia nel proprio successo a prescindere dall’aula. Si tratta di un elemento cruciale. “Dalle ricerche passate sappiamo che la fiducia nei propri risultati in un ambiente può determinare la performance del soggetto”, ha spiegato Cheryan in una conferenza TEDx.

Smania incontenibile e costante: come i media digitali hanno reso tutti noi dipendenti dalla dopamina

Pubblichiamo in traduzione un estratto da un articolo sul The Guardian, di Jamie Waters, sul nuovo libro di Anna Lembke, L’era della dopamina.

La dottoressa Anna Lembke, esperta mondiale di dipendenze, è preoccupata per il mio “phone problem”. Durante la nostra intervista le confesso, di sfuggita, di avere un malsano attaccamento al mio iPhone, controllandolo ogni pochi minuti come un tic compulsivo (vi suona familiare?) che Lembke assolutamente non ha. Vorrebbe che mi astenessi dall’usarlo per almeno ventiquattro ore chiudendolo in un cassetto e uscendo all’aria aperta. Le prime dodici ore saranno colme di ansia e Fomo, ma, col passare del tempo, sperimenterò un vero “senso di libertà”, acquisirò un senso di maggiore consapevolezza sulla relazione col mio compagno digitale e mi risolverò “a tornare ad usarlo in maniera un po’ differente”, dice, parlando con un tono rassicurante ma deciso.

Farei bene ad ascoltare il suo consiglio. Come capo della Stanford University’s Dual Diagnosis Addiction Clinic (che si rivolge a persone con più di un disturbo), Lembke ha passato gli ultimi venticinque anni a curare pazienti dipendenti da qualsiasi cosa, dall’eroina, gioco d’azzardo e sesso a videogiochi, Botox e bagni ghiacciati. La psichiatra cinquantatreenne ha scritto un autorevole libro sull’epidemia di prescrizione di farmaci, ha condotto un Ted Talks sulla crisi americana degli oppioidi ed è comparsa nel documentario Netflix del 2020 The Social Dilemma per discutere la particolare droga rappresentata dai social media. È una specialista nel capire perché sviluppiamo dipendenze – e come possiamo apprezzare cose piacevoli in una dose più sana.

Il suo nuovo libro, L’era della dopamina, mostra come siamo tutti dipendenti in qualche grado. Lei chiama lo smartphone “l’ago ipodermico della contemporaneità”: ci rivolgiamo a questo strumento per rapide “dosi”, cercando attenzione, validazione e una distrazione con ogni swipe, like e tweet. Dalla fine del millennio, la dipendenza comportamentale (che si oppone a quella da sostanze) è salita alle stelle. Ogni momento libero è un’opportunità per essere stimolati, sia entrando nel vortice di TikTok, scrollando Instagram, scorrendo Tinder sia abbandonandosi sfrenatamente al porno, al gioco d’azzardo o allo shopping online.

Flow, un viaggio interiore verso il proprio sé più autentico

Mihály Csíkszentmihályi

La ricerca del benessere interiore: uno scopo, una missione, un valore che ha sempre mosso l’individuo nel corso dei secoli. Questo libro parla di felicità, di espressione del potenziale, di spinta al miglioramento e di tutti quegli aspetti dell’esperienza umana che Csíkszentmihályi riassume sotto la voce di flow. Il flow come sensazione di pieno coinvolgimento nella vita, dunque, ma anche come stato di coscienza imprescindibile per la nostra autorealizzazione. Un concetto che l’autore ha voluto presentare con un linguaggio accessibile a qualsiasi lettore, uno stile narrativo che unisce teoria e pratica attraverso esempi di chi ha fatto di tale esperienza un’occasione di crescita, di arricchimento e di scoperta del nuovo.

Questo volume analizza come e perché una buona consapevolezza di sé stia alla base delle cosiddette “esperienze di qualità”, ossia di quei flussi di coscienza in cui l’individuo diviene un tutt’uno con l’azione che esegue e con l’obiettivo che intende perseguire, dimenticandosi del resto e, nondimeno, dello scorrere del tempo. Una condizione che ancora oggi, e soprattutto oggi, ci è utile sperimentare nella vita personale così come in quella professionale. In una realtà sempre più incerta, volatile e soggetta a repentini cambiamenti come quella odierna, assume infatti più che mai importanza la spinta a confrontarci con scenari nuovi e stimolanti nei quali avvertire e ricercare un perfetto stato di equilibrio tra le nostre risorse e le richieste dell’ambiente, quell’equilibrio che ci aiuterebbe a sentirci comodi ma non troppo e pienamente coinvolti in tutto ciò che facciamo. Un processo dinamico, insomma, dove l’individuo è continuamente chiamato ad affrontare e dirigersi verso sfide e prospettive che prevengano la minaccia dell’ansia e dello stress o, viceversa, il rischio di un’esistenza monotona oppure, ancora, lo spettro di non sapersi rialzare dopo un fallimento, immergendosi così in un flusso in cui il suo agire non diventi solo funzionale al conseguimento di un qualche obiettivo, ma anche piacevolmente fine a se stesso.

La nostra soglia di attenzione? È più bassa di quella dei pesci rossi

La nostra soglia di attenzione? È più bassa di quella dei pesci rossi

Secondo una ricerca svolta da Microsoft in Canada nel 2015, la nostra soglia di attenzione si starebbe abbassando. Nel 2000 era mediamente di dodici secondi, nel 2015 di otto secondi. Addirittura inferiore a quella dei pesci rossi (che è di nove secondi).

Lo studio identifica nell’aumento vertiginoso dell’uso degli smartphone la causa primaria del progressivo deterioramento della nostra capacità di attenzione.

Nella cosiddetta “era dell’informazione”,  nel nostro mondo “a portata di click”, l’attenzione è diventata la vera risorsa limitata, sempre più difficile da ottenere e da controllare.

Il numero di informazioni disponibili nel mondo aumenta ogni anno del 66%, come hanno calcolato Kevin Kelly, fondatore della rivista Wired, e Hal Varian, capo economista di Google. E Derek de Solla Price ha dimostrato che il 90% di tutti gli scienziati mai esistiti è vivente oggi.

Già una quarantina d’anni fa il premio Nobel Herbert Simon sottolineava: “In un mondo ricco di informazioni, questa abbondanza di sapere ha come conseguenza la carenza di un’altra risorsa: la scarsità di ciò che l’informazione consuma. Ed è abbastanza ovvio cosa venga consumato dall’informazione: l’attenzione dei riceventi. Quindi l’abbondanza di informazioni genera una povertà di attenzione.”

Julian Birkinshaw e Jonas Ridderstråle, due tra i più influenti esperti europei di leadership e strategia aziendale, nel loro libro Fast Forward. Imprese e leader ad avanzamento rapido per cogliere il futuro al volo, osservano che l’informazione non è più una risorsa limitata, quindi non può essere una fonte di vantaggio competitivo per le aziende. È invece proprio l’attenzione la capacità sulla quale le imprese potranno basare il loro vantaggio competitivo in futuro.

Il problema dell’eccesso di informazione si sviluppa su più livelli.

1. Individuale

Spesso diciamo di non avere abbastanza tempo nella giornata lavorativa. In realtà, il nostro problema maggiore è la mancanza di attenzione e concentrazione. Uno studio pubblicato sulla Harvard Business Review ha dimostrato che, se si è impegnati in un compito che richiede concentrazione, una breve distrazione come guardare un messaggio può richiederci un tempo di recupero fino a venti minuti!

Certamente non possiamo produrre più tempo, ma possiamo servirci di quello che abbiamo a disposizione in maniera più produttiva e strutturata.

La facilità di accesso alle informazioni ha ovviamente un rovescio della medaglia. Molte persone si perdono nel processo di raccolta dati. Si crea un circolo vizioso in cui si fatica a capire quando smettere di leggere e cominciare a scrivere, col risultato di accumulare un sacco di conoscenza senza però riuscire a mettere le idee su carta.

2. Team

Lo stesso accade nel contesto aziendale. A tutti noi è capitato di trovarsi in una riunione in cui l’incapacità di trovare un accordo si è risolta nella decisione di raccogliere più informazioni. Altra raccolta dati, e intanto le le decisioni difficili sono rimandate….

Ci sono questioni così incerte (ad esempio quelle che implicano una scelta tra due alternative, entrambe buone o entrambe cattive) che vanno risolte affidandosi all’intuito. Spesso, invece, i manager che affidano la loro decisione alla certezza dei dati finiscono per rallentare tutta la filiera dell’azienda.

Oggi, raramente il problema è da attribuire alla mancanza di informazione. L’errore spesso è da ricercare in un modo di pensare “limitato” e ristretto, alla mancanza di carattere o a dinamiche contrastanti o mediocri.

3. Aziende

La maggior parte delle aziende – per evitare errori costosi durante il lancio di nuovi prodotti – chiede sempre più informazioni e insiste su dei test di mercato puntigliosi. Il risultato spesso coincide con un prodotto troppo complicato, che giunge lentamente sul mercato, oppure con la sconfitta a causa di concorrenti più veloci.

4. Settori

Di tanto in tanto, interi settori industriali finiscono con il credere che le informazioni abbiano un valore intrinseco, fine a se stesso. Le informazioni sono un mezzo per raggiungere il reale obiettivo, non rappresentano la meta. L’evoluzione della ricerca nel settore farmaceutico ne è un esempio. Negli anni Novanta si è dato molto valore a un processo di ricerca sistematico computerizzato, basato sull’analisi di enormi quantità di dati, che avrebbe dovuto rivoluzionare la scoperta di nuovi farmaci. Quel processo non ha dato i risultati attesi e oggi si è tornati a un approccio di scoperta più tradizionale.

In conclusione, secondo Birkinshaw e Ridderstråle, oggi le aziende che si distinguono non sono quelle più abili a procurarsi informazioni, ma quelle che “avanzano più rapidamente delle altre, sviluppando la capacità di agire con determinazione, cioè di cogliere le opportunità che emergono, sperimentare nuove offerte e fare grandi scommesse quando è necessario”. 

L’azione senza direzione è, tuttavia, una commodity pericolosa. Per indirizzarla occorre una convinzione emotiva, vale a dire imparare ad ascoltare il proprio ragionamento intuitivo e creare significato per i dipendenti e per i clienti.

“Per essere efficace, l’azione ha bisogno di adrenalina: nello sport, nella danza e anche in azienda”, scrivono gli autori. Le aziende che avranno successo in quest’era dell’informazione in continua evoluzione, quindi, “saranno caratterizzate dalla determinazione nell’azione unita alla convinzione emotiva”.

In sintesi, la formula per il successo si può riassumere con “avanzamento rapido” (fast/forward):

  • “Rapido” (fast) significa essere agili, svegli, sperimentali, capaci di agire con determinazione.
  • “Avanzamento” (forward) significa proattività, continua ricerca e collegamento emotivo con gli altri.

La logica delle nostre motivazioni: ne parliamo con Dan Ariely

Il sito Longreads ha pubblicato un’interessante intervista a Dan Ariely in cui racconta il suo libro Perché: La logica nascosta delle nostre motivazioni, di cui riportiamo la traduzione.

“Per me è sorprendente come alcune idee resistano anche quando è ovvio che non sono più rilevanti”, scrive Dan Ariely nel suo ultimo libro, Perché: La logica nascosta delle nostre motivazioni. Professore di Psicologia ed Economia Comportamentale alla Duke University, Ariely esamina incessantemente le nostre supposizioni su noi stessi e scopre che spesso sono totalmente fraintese. Pensiamo, ad esempio, che il denaro sia la nostra principale motivazione sul posto di lavoro. Ma non solo “un senso di connessione, significato, proprietà e pensiero a lungo termine” sono spesso più efficaci, scopriamo anche che i bonus monetari possono funzionare contro di noi, minando il nostro impegno nel lavoro stesso. In uno studio, ai lavoratori di una fabbrica di semiconduttori è stato offerto un buono per una pizza, un complimento, denaro o niente il primo giorno di una settimana lavorativa. Quel primo giorno, chi ha ricevuto il buono e chi il complimento ha aumentato la produttività più di chi ha ricevuto del bonus, e tutte e tre le proposte hanno motivato le persone più della “condizione di controllo” (non ottenere nulla). Ma con il passare della settimana, le persone che avevano ricevuto il bonus quel primo giorno hanno iniziato a comportarsi peggio di quelle che non erano state affatto ricompensate!

Chiedo scusa per il punto esclamativo, ma è difficile descrivere una scoperta di Ariely senza metterne uno. Il suo lavoro spesso contrasta così direttamente le nostre comprensioni comuni da essere sorprendente, persino divertente. Anche questo ha molto a che fare con lo stesso Ariely. La sua tenacia di ricercatore è accompagnata dal suo impegno a condividere le sue idee con il pubblico, in un linguaggio semplice e con una certa dose di umorismo. Ha scritto una molti libri di successo, tra cui Prevedibilmente irrazionale, The Upside of Irrationality e The (Honest) Truth About Disonesty, e ha tenuto una serie di TED Talks.

[…]

Il tuo campo è l’Economia Comportamentale. Cos’è esattamente?

Ci sono due modi per spiegarlo. Il primo è fare un confronto con l’economia standard. Qui, siamo portati a presumere qualunque cosa sulle persone: che conoscano le loro preferenze, che prendono sempre decisioni che sono nel loro migliore interesse, che non hanno emozioni o limitazioni di tempo, attenzione e capacità di pensiero. Sulla base di questi presupposti, gli economisti vanno avanti e formulano raccomandazioni su come progettare le nostre vite, come realizzare i nostri sistemi fiscali, educativi e sanitari.

L’economia comportamentale, invece, non parte da alcun presupposto. Piuttosto che dire: “Le persone sono perfettamente razionali”, l’economia comportamentale inizia dicendo: “Semplicemente non lo sappiamo”. Mettiamo le persone in situazioni diverse e vediamo come si comportano. E quando metti la gente in situazioni diverse, questa spesso si comporta in modo molto diverso da quello che la maggior parte degli economisti razionali si aspetterebbe. Per questo motivo, le raccomandazioni che derivano dall’economia comportamentale sono molto differenti.

La seconda definizione è che l’economia comportamentale è davvero, almeno per me, un campo applicato delle scienze sociali progettato per capire come prendiamo effettivamente decisioni e come migliorare le cose. Ora, non tutti sono interessati a quest’ultima parte, quella del fare meglio, ma è un’analisi delle vere forze che ci influenzano nella nostra vita quotidiana e di come sfruttiamo queste forze per migliorare la nostra capacità di prendere decisioni.

Allora qual è la motivazione per le persone che fanno economia standard per non tenere conto di quanto siano irrazionali gli esseri umani?

Non è che lo vogliano fare, è che l’economia dà un quadro talmente bello… Immagina che qualcuno del governo venga e ti dica: “Voglio capire come realizzare un sistema sanitario”. Se sei qualcuno come me, diresti: “Ho alcune idee, ho degli esperimenti, eseguiamoli. E tra cinque anni, forse dieci, ti darò alcune risposte o principi guida”. Ma se hai qualcuno che proviene da una prospettiva perfettamente razionale, le loro vite sono semplici. È molto più semplice. E nessuna disciplina delle scienze sociali è perfettamente accurata. La sociologia guarda il mondo da una prospettiva, l’antropologia guarda il mondo da un’altra prospettiva, va benissimo per una disciplina accademica guardare la vita dalla propria prospettiva e dire: “Da questa prospettiva, ecco alcune lezioni che abbiamo imparato.”

Ma quello che penso sia il limite dell’economia è che non sono solo uno studio descrittivo, come la fisica, la chimica o la biologia, che descrivono la natura da prospettive molto diverse, nessuna delle quali è completa. Gli economisti dicono: “Ti diremo anche come vivere la tua vita”. Quindi diventa anche prescrittivo.

Giusto. Entriamo nel vivo di alcune delle tue scoperte più controintuitive – se stiamo pensando a noi stessi come esseri razionali: puoi iniziare parlando di quanto sia sorprendentemente irrilevante o addirittura disincentivante offrire dei soldi alle persone? Sono rimasto particolarmente affascinato dalla tua scoperta che all’aumentare della dimensione del bonus, le prestazioni diminuiscono, a causa dello stress e della paura di non ricevere il premio.

Qualche tempo fa, ho offerto una consulenza a un governo straniero riguardo un programma in cui il ministero delle finanze voleva migliorare l’istruzione nelle loro scuole. La loro idea era di prendere il 10% migliore degli insegnanti di ogni scuola e dare loro un bonus, e mi hanno chiesto cosa ne pensassi.

La prima cosa che ho chiesto loro è stata: “Qual è la tua teoria su ciò che, adesso, stia trattenendo gli insegnanti dal fare bene?” Hanno chiesto: “Cosa intendi?” Ho spiegato che ogni soluzione particolare è un antidoto a qualche problema specifico. Se pensi che la soluzione sia dare un bonus ai migliori insegnanti, significa che pensi che gli insegnanti sappiano cosa fare e l’unica cosa che impedisce loro di farlo è che sono pigri e hanno bisogno di un’altra motivazione . Non solo, ma questa particolare soluzione richiede che ogni insegnante pensi di poter essere tra i primi 10 per cento. Giusto? Perché se solo il 10% migliore pensa di rientrare proprio in quel 10%, questa strategia non motiverà gli insegnanti “in basso”. Quindi le persone devono essere eccessivamente ottimiste in questo scenario. E ciò che era chiaro in quell’esempio, per me, era che alla base c’era un’idea molto ingenua: “Limitiamoci a pagare le persone e le cose miglioreranno magicamente”.

Allora ho detto: “Quanto vere sono le supposizioni a proposito di cosa stia effettivamente succedendo?” Ho parlato loro di uno dei miei studi preferiti di tutti i tempi, in cui hanno dato ai migliori insegnanti il ​​tempo di insegnare agli insegnanti meno bravi. Ora pensa a quel modello. Si tratta di conoscenza, giusto? Le persone non diventano insegnanti perché vogliono essere pigre. Diventano insegnanti perché sono motivati ​​ad aiutare. Ma l’insegnamento è una professione molto difficile. Quindi prendi le persone che l’hanno capito e da’ loro il tempo di insegnare alle persone che non l’hanno ancora capito da sole. Ora, se questo ministero delle finanze avesse fatto ciò che voleva, l’unica cosa che avrebbe garantito, sarebbe stata che nessuno dei buoni insegnanti avrebbe voluto aiutare i cattivi insegnanti, perché allora avrebbero messo in gioco i loro bonus, giusto?

Giusto.

Quindi, all’improvviso, avrebbero iniziato a proteggere il loro territorio. Dunque, ciò su cui dobbiamo riflettere molto attentamente è: qual è il percorso per il cambiamento nel comportamento?

In questo esperimento che hai menzionato, abbiamo detto: “Quando offri alle persone un grande bonus, cosa succede?” Una cosa che ovviamente accade è che man mano che il bonus diventa più grande, le persone desiderano il bonus in misura maggiore. È un bonus migliore, quindi lo vogliono di più.

Ma la seconda domanda era: possono davvero lavorare di più, è possibile? A che punto ci arrendiamo? Penso alla mia vita di professore universitario. Se mi dessero un bonus, cosa farei di diverso? Non dormo abbastanza, lavoro già molto. Ieri è stato l’unico giorno in cui sono stato a casa, questo mese. Cosa potrei fare di più? Non sarei mai a casa.

E poi la terza domanda che ci siamo posti è stata: le persone chiaramente vorrebbero un bonus maggiore, ma possono a loro volta ottenere prestazioni migliori? E infine, fino a che punto pensare al bonus è una buona cosa? Immagina di essere sottoposto a una sorta di delicato intervento chirurgico al cervello e potresti offrire un bonus al tuo chirurgo cerebrale. Vorresti che il tuo neurochirurgo pensasse costantemente al bonus?

No.

Già. Abbiamo fatto uno studio in India: lavorando per circa un’ora, le persone potevano guadagnare un intero stipendio che avrebbero guadagnato in un giorno normale, in due settimane regolari oppure in cinque mesi. Tra il pagamento di un giorno e quello di due settimane non c’era differenza. Ma tra i due pagamenti minori e il pagamento di cinque mesi, c’è stata una diminuzione delle prestazioni. Le persone non erano in grado di proporsi a un livello più alto di prestazioni, lo stress ha avuto un effetto molto negativo sul loro comportamento.

Abbiamo anche chiesto a un Master in Business Administration di Stanford cosa pensavano sarebbe successo in questo caso.  Credevano che maggiore fosse stato il bonus, migliori sarebbero state le prestazioni delle persone. Erano convinti che la brama di denaro sarebbe stata l’unica cosa importante e non avevano pensato agli effetti dello stress.

Abbiamo ripetuto questo esperimento con alcuni compiti molto meccanici, come premere molto velocemente un tasto. Quando l’attività è molto meccanica, lo stress non ha un effetto negativo. Perché? Perché puoi dedicarti a prestazioni più elevate. Per esempio, immagina di venire pagato $ 10 per ogni miglio che hai corso oppure un milione di dollari. Giusto? Se ti pagassi un milione di dollari, potresti fare in modo di correre di più. Ma se ti ho pagato un bonus maggiore per diventare più divertente o più creativo, non è qualcosa che puoi effettivamente controllare.

Una tua scoperta davvero interessante è ciò che chiami “effetto IKEA”: quando costruiamo qualcosa da soli, non solo ci piace di più, ma crediamo che anche gli altri lo adoreranno. L’anno scorso ho intervistato Christopher Kimball, che ha fondato Cooks Illustrated. Vede la cucina come un mestiere, non un’arte, e sostiene che dovremmo padroneggiare una ricetta prima di iniziare a giocarci. Ma fa notare che le persone sempre più vogliono o addirittura sentono il bisogno di fare delle sostituzioni, di fare nostre ricette. La sua teoria è che questo ha a che fare con i pochi sbocchi creativi che la maggior parte di noi ha. Cosa ne pensi, sia come persona a cui piace cucinare che in termini di ricerca? Che cosa sta succedendo in questo caso?

Sono assolutamente d’accordo con l’intuizione che nella società moderna è sempre più difficile per noi creare qualcosa ed è ancora più difficile creare una cosa per intero. E la cucina è proprio uno dei luoghi in cui questo avviene. Sentiamo di avere creato qualcosa. Ma se ci limitiamo a seguire le istruzioni, non possiamo sentire molta responsabilità. Penso che abbia ragione sul fatto che non abbiamo molti posti nella vita in cui sentiamo di poter creare qualcosa che è nostro, e cucinare è uno di quelli.

Scrivere un libro è un altro esempio, ma richiede più tempo che cucinare un pasto. Ma sai, quando scrivi un libro, è tuo in un modo molto speciale, anche se altre persone hanno contribuito. Non hai impaginato, non hai fatto il lavoro grafico, hai un editore, ma sembra ancora il tuo libro. Quindi penso che sia giusto che desideriamo scrivere libri e non ne abbiamo abbastanza.

In uno studio, hanno portato dei bambini in una stanza con un assistente ricercatore. L’assistente alla ricerca ha detto a ciascun bambino: “Dimmi cosa disegnare e io lo disegnerò”, oppure “Tu disegni e io ti dirò cosa disegnare”. E poi sono usciti dalla stanza, l’assistente alla ricerca era in piedi di fronte al bambino, tenendo in mano il disegno, e ha detto alla madre del bambino: “Guarda cosa ho fatto”. Quindi l’assistente di ricerca ha rivendicato il merito. Anche in tenera età, i bambini erano più arrabbiati quando l’idea era loro. Quindi, se seguiamo le istruzioni, non sentiamo che la cosa sia nostra allo stesso modo.

Dato che hai accennato alla scrittura di un libro, mi sono interrogato su questa tendenza di molti scrittori a lamentarsi di quanto sia incredibilmente difficile scrivere. Data la relazione tra i nostri sforzi creativi e il nostro senso di appartenenza e orgoglio per ciò che abbiamo fatto, la ragione di queste lamentele potrebbe essere che queste ci aiutano a sentirci più orgogliosi del nostro lavoro?

Nessun dubbio al riguardo. Sarebbe molto difficile dire che sei molto orgoglioso di qualcosa che non ti ha richiesto alcuno sforzo. Questo è molto importante. E penso anche che ci sia qualcosa di molto speciale nello scrivere: non è molto chiaro dall’esterno quanta fatica ci vuole davvero. Quindi penso che molte volte dobbiamo dirlo alle persone perché non vogliamo che diano per scontato che non ci sia voluto molto sforzo. Dobbiamo correggerli. Ci sono professioni che non hanno bisogno di quell’aiuto perché è chiaro quanto sia difficile. Le persone che corrono una maratona o si allenano per essere un nuotatore olimpico non devono dirti quanto si allenano e quanto sia difficile. Ma quando fai qualcosa come scrivere, è molto, molto difficile capire quanto impegno sia stato effettivamente impiegato. Quindi dobbiamo dirlo alle persone perché cambia il modo in cui pensiamo che le persone vedano ciò che abbiamo fatto.

[…]

Gran parte della tua ricerca riguarda la motivazione nel contesto del lavoro con altre persone, in un’organizzazione. Puoi parlare un po’ di auto-motivazione? Come possiamo farci perseverare con un progetto difficile a lungo termine quando ci sono pochi modi per ottenere l’approvazione degli altri?

Penso che la prima cosa da riconoscere sia quanto sia difficile essere motivati ​​riguardo a cose che accadranno a lungo termine. È quasi disumano. E questo include tutti i tipi di cose che dobbiamo motivarci a fare. Ci sono pochissimi progetti che finiremo in un mese. Tutto ciò che facciamo per la nostra salute riguarda il lungo termine. Ma il lungo termine non è così motivante perché ci limitiamo a fare sforzi, sforzi, sforzi, sforzi e non ne deriva nulla di buono. Quindi cosa possiamo fare? Possiamo sperare, che è quello che fanno spesso i medici: dicono ai pazienti: “Oh, devi solo prendere questo farmaco perché altrimenti morirai per qualcosa”. E possiamo sperare che sia sufficiente. Il problema è che semplicemente non lo è.

Abbiamo tre soluzioni per questo. La prima soluzione è: sceglieremo solo una regola e tu non ci penserai, non la mediterai, obbedirai semplicemente alla regola e basta. Questo aiuta in alcuni casi. Pensa se sei religioso: molte cose ti vengono dettate. Se sei indù, non mangi carne. Non devi chiedertelo. Ma se sei vegetariano, potresti dire a te stesso: “Sarò vegetariano l’85% delle volte”. Cosa succederebbe se questa fosse la regola che ti sei prefissato? Falliresti. Non falliresti sempre, ma falliresti spesso, perché è difficile mantenere una regola che dice “circa l’85% delle volte”. Quindi le persone fondamentalmente diventano vegetariane tutto il tempo, è più facile dire che non si mangia mai carne. O tutto o niente. Lo faccio sempre, non lo faccio mai.

La seconda soluzione è quella che chiamiamo sostituzione della ricompensa. Diciamo che il nostro vero obiettivo è semplicemente troppo lontano e non è sufficientemente motivante. Quindi, invece, troviamo un altro obiettivo. Quest’ultimo non riguarda l’obiettivo a lungo termine ma qualcosa di più vicino nel tempo, ma ci farà comportare come se ci proiettassimo sul lungo termine. Molto di ciò che chiamiamo “gamification” rientra in questa categoria. La gamification sta fondamentalmente dicendo: “Lascia che ti dia dei punti per comportarti bene così, cercando di ottenere i punti, ti comporterai come se ti importasse della tua salute”, o qualunque cosa sia.

Dalla tua ricerca sembra che, se la ricompensa fosse il denaro, non funzionerebbe in questo modo. Deve essere qualcosa di diverso dal denaro.

Giusto. Parte del motivo è che con un premio in denaro non stringi mai davvero in mano nulla. Il denaro è un mezzo per ottenere altre cose, e a volte è meno potente di queste altre cose. Se me ne stessi in strada e chiedessi alla gente: “Compileresti un sondaggio per cinque minuti se ti dessi tre dollari?” la maggior parte delle persone direbbe di no. Ma se dicessi: “Compileresti un sondaggio per cinque minuti se ti comprassi un cappuccino?” le persone sarebbero molto felici di farlo. Ora, con tre dollari puoi comprare un cappuccino. Ma quando ottieni tre dollari non pensi al valore edonico di ciò che stai ricevendo. In più non fa parte dello scambio sociale, quindi finisce per essere molto diverso, anche se nel valore assoluto della transazione finanziaria i tre dollari valgono più del cappuccino.

Giusto. Qual è la terza soluzione per la motivazione a lungo termine?

Il terzo è il cosiddetto contratto di Ulisse: limitiamo il nostro comportamento ora per costringerci a fare qualcosa in futuro. Ad esempio, hai mai preso un appuntamento con un allenatore in palestra pagando in anticipo, così che se non ti fossi presentato non avresti potuto riavere i soldi?

Giusto.

Perché è un buon approccio? Perché non possiamo riavere i soldi indietro. Se potessi riavere i tuoi soldi, penso che l’intero settore crollerebbe. Nessuno si sarebbe mai fatto vivo. Quindi un contratto di Ulisse è quando dici: “So che il mio sé futuro si comporterà male, quindi fammi fare qualcosa ora per impedirlo”. Quindi puoi uscire a bere, ma prendi solo venti dollari in contanti. Si chiama contratto di Ulisse perché, se ricordi, Ulisse chiede ai marinai di legarlo all’albero in modo che non possa seguire le sirene.

Scrivi che non appena il sistema monetario viene introdotto, mina completamente il contratto sociale. Ha qualcosa a che fare con la cultura o è intrinseco al denaro?

In alcune culture è molto comune regalare denaro alle persone. Non conosco nessuna cultura in cui, quando vai a casa delle persone che ti hanno invitato a cena, dai loro denaro, ma in alcuni posti è più comune dare soldi per compleanni, regali di nozze e così via. Quando qualcosa diventa comune e socialmente accettato, diventa meno offensivo. Quindi, se avessimo creato una società in cui, quando vieni a casa mia per cena, ci si aspetta che porti $ 25 invece di una bottiglia di vino, quel gesto non sarebbe così offensivo. Ma anche nelle culture in cui questo è accettato, non credo che il denaro stia aumentando i legami d’amicizia rispetto ad altre cose che le persone potrebbero fare. Quindi, anche se il denaro non è offensivo, non è comunque positivo come potrebbero essere altre cose.

Secondo la tua ricerca, tendiamo a sopravvalutare l’efficacia di un incentivo in denaro sul posto di lavoro e sottovalutare l’importanza del valore dell’esperienza e della connessione interpersonale. Non ho lavorato in un ambiente aziendale per molto tempo ma, dall’esterno, mi sembra che ci siano molte restrizioni su ciò che è considerato professionalmente appropriato. Suggerisci come possibili incentivi alcune piacevoli interazioni umane come dare un abbraccio o consegnare la pizza ai vostri dipendenti, ma mi chiedevo se potessero essere disapprovati. Quanto le nostre norme culturali e le nostre paure giocano nella nostra incomprensione della motivazione sul posto di lavoro?

Quando progettiamo sistemi di incentivi, non siamo all’interno del sistema stesso. Stiamo guardando dall’esterno verso l’interno. Diciamo: “Cosa motiva le persone? I soldi. Fammi riorganizzare i soldi in un modo che induca le persone a volere questo e quello e così via”. Ma in quel momento non comprendiamo veramente la profondità e la varietà della motivazione. Penso che questa sia la prima parte, che quando progettiamo sistemi, non capiamo gli incentivi.

E la seconda cosa è che hai ragione, abbiamo creato una cultura che rende difficile, a volte, creare reciprocità sociale. Come hai detto, c’è un bel distacco. Ho chiesto a una banca: “Cosa fai con le persone quando ottengono un bonus di oltre un milione di dollari?” E hanno detto: “Niente. Non gli stringiamo nemmeno la mano.” Ero piuttosto indignato. È una società per azioni e stanno sprecando i nostri soldi! Preferirei di gran lunga se pagassero ottocentomila dollari le persone e invitassero a bere una birra. Ma sono così felici di dare via i nostri soldi che non pensano nemmeno a cos’altro possono fare e hanno creato una cultura in cui non dicono nemmeno: “Congratulazioni e grazie mille, apprezzo molto il vostro aiuto.”

Leggi l’intervista completa su Longreads

Starbucks e il principio di Pareto

Quasi in contemporanea con la trionfale apertura del primo negozio Starbucks a Milano, arriva in Italia anche il nuovo libro del guru di Google AdWords Perry Marshall, Il principio 80/20 per vendite e marketing, dedicato a declinare in chiave marketing & vendite il famoso principio di Pareto. Ovvero il “Principio 80/20” nella rilettura che ne ha fatto Richard Koch (a cui Marshall si richiama) e che ha ispirato anche Tim Ferriss (più volte citato nel libro).

Come riconosce lo stesso Koch, che firma la prefazione, Marshall applica il principio in modo originale e proficuo alle attività di marketing e vendite. E ha soprattutto il merito di approfondire un aspetto che lo stesso Koch aveva intravisto, cioè la natura “frattale” del principio. “Frattale” vuol dire che lo schema 80/20 si riproduce all’infinito man mano che andiamo in profondità: il 20% di un fenomeno contiene al suo interno una struttura 80/20, il cui 20% ne contiene un’altra e così via all’infinito. Lavorare sul 20% del 20% può già portare a un aumento esponenziale di risultati.

Questo fatto ha una serie di conseguenze pratiche interessanti. La prima è che ogni fenomeno si può sempre scomporre in fenomeni più piccoli, all’interno dei quali vale sempre la regola 80/20. Per esempio, se ho un’iniziativa di marketing con diverse variabili (più prodotti, più prezzi, più varianti di comunicazione) posso trattare separatamente le variabili e prendere in considerazione di ciascuna solo il 20% che dà migliori risultati. Inoltre quando si migliora la performance dei vari fenomeni separatamente, il risultato complessivo si moltiplica: quindi, per esempio, se ho raddoppiato la performance sia del prodotto, sia del pricing, sia della comunicazione, il risultato è 2 per 2 per 2, cioè una performance di 8 volte superiore.

La seconda è che ogni fenomeno soggetto alla regola 80/20 si può rappresentare con una curva precisa, fatta così:

Questa curva mostra in orizzontale le percentuali e in verticale la grandezza di cui si vuole misurare la distribuzione. E dice in pratica che fino all’80% la grandezza è molto poco presente, poi nell’ultimo 20% schizza verso l’alto. Il bello è che la curva si può usare per descrivere i fenomeni, ma anche per prevederli. Ad esempio, se io so che il 40% della popolazione di riferimento corrisponde a un valore x, posso calcolare a quanto corrisponderà il 20% top. Marshall presenta una formula molto pratica per fare questo tipo di calcoli.

Un esempio? Consideriamo, dice Marshall, 1000 clienti che entrano da Starbucks. Sappiamo che ci sarà almeno un cliente al lato più basso della scala che spenderà solo $1,40, cioè il costo di un caffè. Se è così, la curva ci dice che all’altro estremo della scala deve esserci almeno un cliente disposto a spendere $537. Com’è possibile spendere così tanto in una sola visita a Starbucks?

Semplice: comprando qualche consumazione, più una macchinetta per fare il caffè espresso in cialde. Starbucks, che evidentemente conosce il principio di Pareto applicato al marketing, ne vende infatti una a $275. Non solo: ne vende anche una di lusso a $2.699,95: infatti il 20% dei clienti top di Starbucks comprenderà a sua volta un 20% top, che comprenderà a sua volta un 20% top, e così via, fino ad arrivare a un cliente disposto a spendere più di 2.000 dollari per portarsi via una macchinetta del caffè top di gamma.

Come identificare il 20% redditizio e schivare l’80% che ci fa perdere tempo e soldi? Semplice, dice Marshall: bisogna testare. Con le campagne online questo è particolarmente semplice. Lo si può fare con Google AdWords. Basta scomporre le campagne, testare i singoli elementi, lavorare sul 20% redditizio, testare all’interno di quest’ultimo e così via, ricordandosi che i miglioramenti dei singoli “pezzi” si moltiplicano.

Ma il principio non vale solo per le campagne (tantomeno online). Per esempio, se vogliamo guadagnare di più in rapporto al tempo lavorato basta applicare la curva di Pareto alle ore della giornata, e poi ai minuti, per individuare la redditività delle varie attività. Se si vuole valutare la propria forza di vendita basta ricordarsi che, parafrasando Jack Welch, ogni anno ci sarebbe sempre un 20% di venditori da licenziare. Se si vuole segmentare un database si può applicare il principio di Pareto in 3D a Recency, Frequency e Money e lavorare solo sui nominativi top della lista.

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