Come nascono le storie, il nuovo libro di Pablo Trincia ci spiega che narrare è un atto d’amore

Come nascono le storie, Pablo Trincia

Edito da Roi Edizioni, è sia un manuale che un memoir, un’opera che ci invita a riflettere sul potere impattante e trasformativo delle storie

L’informazione non è che un riflesso della realtà, una lettura che può mutare radicalmente a seconda dello sguardo di chi la agisce. Le storie, al contrario, operano su un piano ben diverso e più profondo: s’insinuano nell’animo di chi le legge o le ascolta, toccano corde emotive, favoriscono l’immedesimazione, l’empatia, danno vita a uno sguardo repleto e intriso di consapevolezze nuove e diverse che fanno eco con la propria storia. Paradossalmente, il potere di un’opera narrativa può rivelarsi infinitamente più incisivo e politicamente più carico rispetto a un testo giornalistico, pur nella sua apparente neutralità. Per questo, il podcast è il medium che ha avuto più diffusione e successo negli ultimi anni, uno strumento per certi versi antico e democratico, un mezzo che pur nella sua apparente semplicità e immediatezza, si colloca a metà strada tra l’informazione e la narrazione, come una rete che unisce il rigore divulgativo alla magia evocativa della parola raccontata.

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L’evoluzione 5.0 del Retail

Negli ultimi anni, espressioni come Business to business (B2B), Business to consumer (B2C), negozi fisici, ecommerce e omnicanalità hanno dominato il settore del retail. Tuttavia, i concetti sembrano ormai inadeguati per descrivere la sua profonda trasformazione, come sostengono Philip Kotler, esperto di marketing moderno, e Giuseppe Stigliano, Global CEO di Spring Studios, agenzia di marketing e comunicazione, nel libro Rivoluzione Retail (ROI Edizioni, 2024).

In particolare, gli autori spiegano che il Retail è entrato nell’era 5.0, o era post digitale, che richiede un ripensamento dei modelli di business e un cambiamento di paradigma dell’intera filiera. La rivoluzione attuale, evidenziata nel libro, è guidata in particolare da una crescente iperconnessione, dall’evoluzione dei mercati e dai cambiamenti dei tradizionali canali di vendita.

Se l’era 4.0 era dominata dall’ecommerce, l’era post digitale sposta l’attenzione sulla pervasività dei canali e sulla crescente competenza tecnologica dei consumatori. “Un aspetto che caratterizza la quinta ondata del Retail è la presenza stabile di mondi virtuali e immersivi in segmenti sempre più ampi della popolazione mondiale”, scrivono gli autori. La nuova fase vede la fine della netta distinzione tra fisico e online e della distinzione B2B e B2C per favorire un’esperienza d’acquisto più fluida.

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“Il rumore degli algoritmi”

Kyle Chayka


La cultura è diventata rumore di fondo, gli algoritmi pilotano ciò che vediamo suggerendocelo, trasformano i contenuti adattandoli alla circolazione priva di attrito dei feed automatizzati. Le idee che attraversano Filterworld. Come gli algoritmi hanno appiattito la cultura (ROI, 2024) di Kyle Chayka, giornalista del New Yorker, subito sembrano vere, ma ti chiedi se non sia sempre stato così, con i mezzi di distribuzione a far convergere la popolarità verso determinati punti e non altri. “Eccoci qua, facci divertire”: ricordo pomeriggi convinto che ascoltare Smell Like Teen Spirit fosse libero arbitrio, invece era la programmazione di MTV. Nel libro di Chayka, però, c’è più dell’ovvio: l’autore è nato in Connecticut e dice che lì “internet era lo spazio culturalmente più radicale alla mia portata”, ma c’è stato un momento in cui la rete è cambiata, a metà degli anni Dieci. Pare preistoria ma una volta su Instagram guardavi le foto dei tuoi amici e il feed di Twitter si aggiornava cronologicamente. Poi gli algoritmi di suggerimento si sono fatti strada, dalla home di Netflix al brano successivo di Spotify, creando quello che Chayka chiama il “mondo filtrato”: è impossibile che un pezzo di cultura circoli senza gli algoritmi, oggi è il feed a costruire il pubblico.

Prima dei suggerimenti automatizzati c’erano gli appassionati che spargevano consigli. Prima che internet venisse svuotata dalle poche aziende che controllano le piattaforme, l’attenzione dei naviganti si diffondeva in una costellazione di siti web di piccole dimensioni. I gesti che davano forma a quella costellazione erano la profonda conoscenza di qualcosa e il suo scambio, perlopiù nel modo gratuito del dono. Internet senza un centro di inizio secolo con le sue bizzarrie, le pratiche al limite od oltre la legalità, “come modello di distribuzione culturale, così come esisteva negli anni Duemila, non riesco a pensare a nulla di meglio dell’ecosistema dei forum e del file sharing”, scrive Chayka. I suggerimenti culturali condivisi da persone erano “atti sociali e morali”, l’inizio di percorsi fuori dai circuiti stabiliti.

[…]

Nella creazione del gusto, nelle scelte che un individuo compie discriminando ciò che gli piace e cosa no, si costruisce la visione del mondo: un gioco che si può condividere con gli altri. Archie e Amy, alla fine della scena, su una panchina lontano da casa, si baciano per la prima volta.

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“Lavoratori (intellettuali) di tutto il mondo: rallentate!”

Un altro libro di autoaiuto? Sì e no. Slow Productivity di Cal Newport (Roi Edizioni) si colloca all’intersezione tra il manuale pratico tipo “Getting Things Done”, basato sulla compilazione di liste di cose da fare (nel caso di Newport, da NON fare o da fare meno), il manifesto “politico”, e il libro di divulgazione scientifica pieno di esempi e aneddoti tipico della miglior tradizione accademica anglosassone.

Caveat fondamentale: tutto quanto Newport scrive nel suo libro si applica solo alle professioni intellettuali, intese in senso abbastanza ristretto: “La filosofia che ho sviluppato si rivolge principalmente a coloro che svolgono un lavoro qualificato con un notevole grado di autonomia” scrive nelle conclusioni.

Il concetto di base è che l’idea che abbiamo di “produttivita?” per le professioni intellettuali, appunto, arriva dritta dalla Rivoluzioni Industriale: è forse applicabile quindi al lavoro manuale (con la conseguenze disumanizzazione portato da un approccio quantitativo al lavoro), ma certamente non funziona (piu?) nel campo del lavoro “di concetto”. L’arrivo del pc, del lavoro in rete, e poi delle email, e poi dello smartphone, e poi di slack, teams, whatsapp eccetera, che hanno dissolto il confine tra lavoro e vita privata, hanno reso la situazione esplosiva: siamo sopraffatti da tutto cio? che dobbiamo fare e costretti a decidere tra il cedere alla cultura dell’affanno che ci soffoca o rifiutare del tutto l’ambizione di carriera.

Questo ha portato all’emergere della cultura della pseudo-produttività (come la chiama Newport, Professore di Computer science alla Georgetown University e autore di numerosi libri, fra cui il best seller Minimalismo digitale), definita come “L’uso dell’attività visibile per stimare l’effettivo impegno produttivo”.

Come difendersi? Appunto, con la Slow Productivity, sistema di regole e trucchi che prende il nome in modo trasparente dallo Slow Food di Carlo Petrini la cui maggiore intuizione, secondo Newport, non fu solo l’uso del concetto di “lentezza” ma si basava soprattutto su due “idee profonde e innovative che possono essere applicate a molti diversi tentativi di costruire un movimento di riforma in risposta agli eccessi delle modernità”: il potere delle alternative attraenti (“Chi soffre per gli altri fa più danni all’umanità di chi si diverte” ha detto Petrini) e quello di attingere alle innovazioni culturali collaudate nel tempo.

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“Il libero arbitrio è solo un’illusione”

Robert Sapolsky

Pensate di aver preso una decisione autonoma? Vi sbagliate: il libero arbitrio è un’illusione. Robert Sapolsky, biologo, etologo e neuroscienziato di Stanford, abbraccia questa tesi spiacevolissima e la difende per oltre 600 pagine con argomenti stringenti e una vena brillante di ironia. Poiché nulla si origina dal nulla e ogni evento ha una casa antecedente, i nostri comportamenti sono determinati dal nostro cervello, dalle sue passate relazioni con l’ambiente e con gli altri sin dalla nascita, dalla storia evolutiva. Ne deriva che nessuno può essere considerato responsabile delle proprie azioni: niente più colpe né meriti, meno odio, meno gioia di punire e vendicarsi, più nessuna colpevolizzazione della malattia mentale. Ma l’autore giunge anche a conseguenze poco digeribili, come per esempio che non si possa scegliere di non essere assassini o pedofili. Molti filosofi pensano infatti che una visione del genre porterebbe al crollo delle nostre motivazioni e al collasso della società. Non certo Sapolsky, che collabora con i difensori d’ufficio nei processi. Gli abbiamo chiesto di raccontarci i risvolti di una tesi tanto radicale.

Chi sostiene l’esistenza del libero arbitrio, secondo lei, evoca un’entità magica sospesa nel nulla. Ma anche nella sua cascata di cause ed effetti cadiamo in un regresso infinito, fino al Big Bang. Perché preferire una serie senza fine di tartarughe piuttosto che un’ultima tartaruga su cui poggia il mondo? “Invertirei la questione. La sfida è che noi non vogliamo tartarughe infinite. Non sembra intuitivamente accettabile alla maggior parte di noi. Ecco perchè è così difficile convincere le persone a rifiutare il libero arbitrio”.

C’è un problema di limiti di conoscenza. Non sapremo mai perchè Adolf Hitler e Francesco d’Assisi si comportarono in modo così diverso: troppe cause intrecciate. Lei scrive che il fatto di non conoscere quelle cause non deve indurci a pensare che esse non esistano. Ma perché il fatto di non conoscerle dovrebbe portarci a pensare, al contrario, che essere certamente esistono? Non dovremmo restare agnostici? “Rifiuterei l’agnosticismo per due ragioni: il processo scientifico ci ha mostrato mille volte che cose che inizialmente non sembravano avere una causa poi hanno rivelato di averne; nessuno ha mostrato finora un percorso plausibile attraverso il quale le leggi fisiche possano essere aggirate per produrre comportamenti senza cause”.

Oggi si tende a invocare la meccanica quantistica per giustificare le più bizzarre teorie. Cosa c’è di sbagliato in questa moda? “Le persone spesso hanno la necessità di decidere che qualcosa che è imprevedibile allora è anche indeterminato. Ciò di cui spesso hanno ancor più bisogno è decidere che ciò che è imprevedibile sia anche magico”.

[…]

Lei scrive che sentirsi determinati da altro è angosciante e che sarebbe folle prendere sul serio tutte le implicazioni della non esistenza del libero arbitrio. Non capisco: pensa che la vita sarebbe migliore se rinunciassimo all’illusione della libertà, oppure, pur sapendo che non esiste, dobbiamo vivere “come se” il libero arbitrio esistesse? “No, ciò che dobbiamo fare tutti, me compreso, è combattere ogni circostanza in cui l’intuito ci dice che esiste il libero arbitrio, quei momenti in cui crediamo di essere nella posizione di giudicare moralmente chiunque altro, o di provare un senso di merito derivante da qualsiasi cosa abbiamo fatto”.

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Prepararsi al dopo

Pubblichiamo l’estratto della recensione di Immagina di Jane McGonigal, a cura di Matteo Meschiari per DoppioZero.

Istituto per il Futuro di Palo Alto, California. Nasce Superstruct, una simulazione di sei settimane per mappare le conseguenze politiche, sociali, economiche ed emotive di una minaccia globale, ad esempio una pandemia. È il 2008. A inizio 2020, Jane McGonigal, lead designer del progetto, fa un webinar dove illustra per filo e per segno ciò che di lì a poco sarebbe accaduto a livello globale, dai focolai di superdiffusione al trauma psicologico del lockdown. L’incontro era organizzato come una lista di consigli concreti per affrontare l’emergenza, ma il suo contributo, nonostante l’accuratezza delle previsioni, è stato ignorato nella gestione politica e psicologica dell’emergenza.

Chi invece aveva partecipato alla simulazione del 2008 è stato in grado di affrontare gli eventi con più sicurezza e con una dose molto più bassa di stress. McGonigal osserva: “credo che il ruolo di una simulazione sia preparare le nostre menti e migliorare la nostra immaginazione collettiva, in modo da essere più flessibili, adattabili, agili e resistenti quando ci troveremo ad affrontare l’incredibile”. Da qui nasce il libro Immagina. Giochi, scenari e simulazioni per prepararsi al futuro e coltivare l’ottimismo urgente (ROI Edizioni 2022), un manuale di allenamento dell’immaginario che, con consigli, esercizi e input motivazionali, si propone di insegnare al lettore a compiere viaggi virtuali avanti nel tempo. In un paese come l’Italia, dove se tutti giocassero a scacchi saremmo gli ultimi del torneo perché affronteremmo la partita una mossa alla volta, in un clima di atavica e orgogliosa avversione agli scenari di previsione, il libro di McGonigal arriva come un manufatto extraterrestre.

Leggi la recensione completa su DoppioZero

Imparare a cambiare (anche con il respiro)

Imparare a cambiare (anche con il respiro)

In un mondo in continuo mutamento l’unica cosa che non cambia è l’umana resistenza al cambiamento. Cambiare è la cosa più difficile al mondo: determina diffidenza, chiamando in causa l’autostima, e la paura dell’incerto si lega a quella del fallimento. Ma se è così faticoso cambiare perché porsi il problema di farlo?

In uno studio Carol Dweck, psicologa di Stanford, ha identificato due tipi di persone. «La prima è contraddistinta dalla mentalità statica. Sono persone che ragionano per bianco e nero, giudicanti in modo definitivo, convinte che sia impossibile passare da una situazione all’altra e la loro domanda ricorreste è: “Perché è successo a me?”. Le persone del secondo tipo hanno, invece, una mentalità di crescita, sono capaci di adattarsi, hanno capito che cambiare idea su qualcosa può trasformarle. Un concetto, quest’ultimo, assodato nelle neuroscienze, soprattutto per la gestione dello stress e delle nostre emozioni. Ecco perché vale la pena provare a cambiare», esordisce Mike Marić medico specialista in Ortognatodonzia e professore all’Università di Pavia, campione mondiale di apnea, oggi allenatore, tecnico europeo di 4° livello CONI e autore del nuovo libro Se respiro posso (ROI Edizioni).

La grande competizione con se stessi

«La vita, appassionante e a volte durissima, ci invita ogni giorno a evolvere. Allenarsi a cambiare significa riuscire a vincere e a gestire al meglio le piccole e grandi sfide quotidiane, le stesse che possono sopraffarci se siamo impreparati». Insomma, la più grande competizione è con noi stessi.
«Gli individui di successo, intendono per successo l’essere più forti, sereni, grati e appagati, hanno amore per sé e per quello che fanno, conoscono i propri bisogni perché sanno ascoltarsi, sono costanti nel replicare le stesse azioni nel tempo perché hanno un desiderio autentico da perseguire, una forte motivazione», prosegue l’esperto che nel suo libro accompagna il lettore in un viaggio interiore per capire come sia possibile migliorarsi traducendo ciò che ci succede nell’opportunità di prendere in mano la propria vita.

Le fasi delle “4D”

«Per riuscire a cambiare davvero credo sia necessario attraversare quattro fasi che chiamo “le 4 D”. Desiderio: è la fiamma che ti nasce dentro, dai tuoi bisogni, dalla tua chiarezza di intenti. Decisione: decidere significa anche recidere, quindi essere in grado di prendere una strada, evitarne un’altra e capire cosa fare per raggiungere il tuo obiettivo. Disciplina: è la capacità di affrontare lo sforzo necessario per raggiungere un obiettivo dandosi regole e rispettandole. Maggiore è la motivazione, più semplice sarà disciplinarsi. Determinazione: è la capacità di mantenere la rotta, significa sapere dove si sta andando e conoscere le azioni necessarie per arrivarci e soprattutto significa non mollare a prescindere delle circostanze. Sono le nostre abitudini a definire il modo in cui affrontiamo la vita e le sue sfide.»

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La chimica delle relazioni

È sempre una questione di chimica. Non solo quando devi conquistare qualcuno a cena (e qui hai bisogno di ossitocina e serotonina), ma anche se vuoi collaborare in modo efficace con un collega (cortisolo e ancora ossitocina a palate), o fare la ramanzina a tuo figlio senza che si metta le cuffie (e qui ti serve l’adrenalina). Paolo Borzacchiello, esperto di intelligenza linguistica e comunicazione strategia, ci spiega come la nostra vita sia regolata e influenzata dagli ormoni prodotti dall’organismo, come si fa a regolarli, aumentarli e smorzarli in un sofisticato mix biochimico che possiamo imparare per promuovere fiducia, attenzione e benessere in chi entra in relazione con noi.

L’attenzione

È una qualità della mente ormai rara e preziosa. «Sommersi da un diluvio di informazioni, la nostra capacità attentiva negli ultimi 20 anni è diminuita drasticamente perché passiamo il nostro tempo con la testa nel cellulare», afferma l’esperto di comunicazione. «Non a caso la Treccani ha inserito il termine Smombies (dall’unione di smartphone e zombies) nella sua enciclopedia per indicare quelle persone che vivono attaccate a un display senza prestare attenzione al mondo circostante. Si calcola che la nostra concentrazione si attesti circa sui 9 secondi (paragonabile circa a quella di un pesce rosso). Dal punto di vista chimico, gli ormoni che possono darci una mano sono l’adrenalina e il cortisolo. Come si fa a stimolarli nel nostro interlocutore? Attivando il fonosimbbolismo, frame linguistici e categorie metaforiche specifiche. In pratica puoi cambiare spesso il ritmo, il tono e il volume della tua voce, utilizzare la lettera R e le consonanti dure, che agiscono sul cervello e sulle ghiandole surrenali per produrre adrenalina, e metafore che richiamino una sfida una battaglia. Usa le pause per enfatizzare un contenuto, chiama per nome chi hai di fronte, fagli cambiare posto con una scusa, mantieni il contatto visivo. Anche il look è importante: il colore rosso per esempio è un eccitante (può essere usato anche in un dettaglio: un braccialetto, degli occhiali). Essenziale anche la gestualità: movimenti secchi e decisivi (come indicare qualcosa o qualcuno) mentenfono alta la concentrazione di chi vi sta di fronte».

La fiducia

Quando siamo di ottimo umore, siamo più propensi a ricordare le informazioni e tendiamo a vedere il lato positivo delle situazioni. «Questo stato d’animo è dovuto a un mix di due ormoni: ossitocina e serotonina» spiega Paolo Borzacchiello. «Come si fa a indurre negli altri uno stato di fiducia? Partiamo dal linguaggio. Usa il modo indicativo invece del condizionale (per esempio: possiamo invece di potremmo) e metafore “incarnate” che richiamino il concetto di “arto”, “leggero” e “luminoso”: come “mi sento al settimo cielo”, “hai avuto un’idea brillante” o ancora “questo progetto decollerà sicuramente”. Poi sposta l’attenzione al tuo interlocutore in uno scenario futuro in cui riuscirà a raggiungere i suoi obiettivi attraverso una serie di domande. “Come ti sentiresti se…?” e il suo sistema endocrino farà il resto. Inoltre, la modulazione del parlto è un valido aiuto: un tono di voce né troppo alto né troppo basso e la presenza di pause adeguate. Per ottenere poi un rilascio di endorfine puoi sparigliare le carte e raccontare un aneddoto divertente o fare una battuta improvvisa. Per acquisire autorevolezza, bada alla postura: deve essere eretta e simmetrica, con volto e mento all’insù, facendo gesti ampi e circolari. È anche efficace il contatto fisico: metti una mano sulla spalla o sul braccio di chi ti sta vicino, annuendo. Infine è importante l’ambiente circostante: la presenza di arredi naturali come legno e perquet, di vadi e piante e di materiali come la pietra (che implica solitià) inducono sicurezza e fiducia».

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«Io turbolenta in amore? Ho avuto solo 4 o 5 uomini. A Pozzecco ho salvato la vita»

Pubblichiamo l’estratto dell’intervista a Maurizia Cacciatori sul Corriere della Sera, a cura di Flavio Vanetti. Per ROI Edizioni Maurizia Cacciatori ha scritto Senza rete, di cui lei dice “Qui c’è il mio profumo”.

Maurizia Cacciatori, con una donna non si dovrebbe mai parlare di età. Ma nel suo caso, nel 2023, è in arrivo una certa scadenza…

«I cinquant’anni, intendete? Non ci penso. Ho sempre dichiarato con serenità la mia età: non ho paura del tempo che passa, temo di più come lo seguo. Si avvicinino pure i 50: sono orgogliosa e realizzata. Con il volley ho smesso a 33 anni, la vita è fatta di cicli e io volevo una famiglia».

Ora è speaker motivazionale e parla alla platea delle aziende.

«La mia è la storia di chi ci prova, ci mette la faccia, cade e si rialza. Le aziende dovrebbero essere dei team straordinari: molte volte lo sono, tante no. Quindi affronto temi come leadership, valore del gruppo, gestione dei cambiamenti».

Lei ha detto: «Le coppe si vincono in allenamento».

«E si ritirano in gara. Quello che ho conquistato l’ho vinto giorno dopo giorno, partendo dal lunedì e meritandomi il posto in squadra».

Maurizia Cacciatori e Francesca Piccinini, simboli di un’era del volley. Chi è stata più iconica?

«Non saprei. Francesca ha giocato più a lungo di me, però io sono arrivata prima: l’ho vista diventare una donna. Ero una sorella maggiore? Sono stata una compagna che ha aiutato una giovane a inserirsi. Poi lei è stata straordinaria».

Mai uno screzio tra di voi?

«Mai, a parte le discussioni su qualche giocata: ciascuna aveva il suo mondo. Se dovessi indicare con chi non andavo d’accordo, farei una lista lunga. Ma la “Franci” non c’è. Ho avuto una compagna discreta e dai bei modi, mi è piaciuta come persona e ancora oggi ci sentiamo».

Francesca nel 2002 ha vinto un Mondiale dal quale lei è stata esclusa. Ha perdonato Marco Bonitta, il c. t. che non la volle?

«Ora lo ringrazio. Vedevo tutto con occhi diversi: andavo agli Europei, ai Mondiali, ai Giochi, mai ero in discussione. Quando fui lasciata a casa, in modo inatteso, ho capito che si è in equilibrio tra momenti esaltanti e cadute».

Le piacerebbe essere nella Nazionale di oggi?

«Poco. Primo: è il momento di queste ragazze, se lo godano. Secondo: penso alla famiglia e a quello che devo fare. Però invidio la palleggiatrice che alza per giocatrici di talento immenso».

Perché siamo drogati di dopamina

Pubblichiamo un estratto dell’intervista alla dottoressa psichiatra Anna Lembke a cura di Lorenza Guidotti per Starbene, in cui spiega il concetto alla base del suo nuovo libro, L’era della dopamina: l’effetto della dopamina sul nostro cervello. “Più cerchiamo il piacere in modo compulsivo più proviamo dolore”.

Nella società del ” tutto e subito”, abbiamo a disposizione qualsiasi cosa desideriamo, ma non è mai abbastanza: vogliamo sempre di più. Ogni giorno il numero e la varietà di stimoli gratificanti è in crescita: cibo, notizie, shopping, gaming, sesso, social… «Non c’è che da scegliere la nostra droga preferita», suggerisce Anna Lembke, docente di psichiatria alla Stanford University School of Medicine e direttrice della Stanford Addiction Medicine Dual Diagnosis Clinic negli Stati Uniti. «Una volta la nostra vita era caratterizzata dalla scarsità, ora trabocca di abbondanza. Questo ha compromesso l’equilibrio tra piacere e dolore nell’esistenza di ognuno di noi. Il risultato? Un rilevante aumento delle dipendenze.

In che modo?

Le sostanze e i comportamenti che provocano una sensazione di euforia o di benessere – e che spesso sono strettamente legati all’uso di alcol, tabacco, videogiochi, gioco d’azzardo – aumentano il rilascio di dopamina nel circuito della ricompensa del cervello.

Cos’è il circuito della ricompensa cerebrale e perché è importante?

Funziona in questo modo: le principali cellule funzionali del cervello sono chiamate neuroni. Comunicano tra loro, nelle sinapsi, attraverso segnali elettrici e neurotrasmettitori. Quest’ultimi sono come palle da baseball: il lanciatore è il neurone pre-sinaptico, il ricevitore è il neurone post-sinaptico, la dopamina è la palla che viene lanciata da uno all’altro. Questo neurotrasmettitore è importante perché agisce sulla motivazione a ottenere un piacere. Agisce sul desiderio quindi, più che sul raggiungimento della gratificazione in sé. Più il cervello ne produce, più sviluppiamo una dipendenza. Un esperimento sui topi ha dimostrato che il cioccolato produce nel cervello dei topi un aumento della produzione del neurotrasmettitore pari al 55%, il sesso del 100%, la nicotina del 150% e la cocaina del 225%. L’anfetamina presente nelle droghe che si vendono in giro o in alcuni farmaci utilizzati per curare i disturbi da deficit di attenzione, del 1000%. In pratica una pipa di metanfetamine equivale a 10 orgasmi.

Quindi siamo tutti destinati a diventare dipendenti da qualcosa?

No, ma occorre stare in guardia. Il cervello elabora sia il piacere sia il dolore nelle stesse strutture neurali ma le due sensazioni funzionano come fattori opposti per mantenere l’equilibrio. Mi spiego meglio: possiamo immaginare il meccanismo che regola la sensazione di piacere e dolore come un’altalena. Quando è in equilibrio, la barra dell’altalena è piatta. Quando iniziamo a desiderare qualcosa molto ardentemente, la dopamina inizia a essere rilasciata nel circuito della dipendenza e l’altalena inizia a pendere dalla parte del piacere. Più è veloce questo processo, maggiore è la gratificazione che proviamo. Occorre sottolineare una caratteristica importante di questa bilancia: il cervello non ama le condizioni di squilibrio, a maggior ragione se perdurano per molto tempo. Quindi, ogni volta che la barra si sposta sul lato del piacere, entrano in gioco meccanismi di autoregolazione volti a ristabilire la condizione originaria. Nel momento di massimo piacere possiamo immaginare un gruppo di piccoli gremlin che saltano sul versante del dolore della barra per riportare l’asse in equilibrio.

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