Il mondo del lavoro oggi assomiglia a una torre di Babele che sembra aspirare a una migliore condizione personale, piuttosto che a Dio. Il che non è necessariamente un male se interpretiamo questo momento come una fase di passaggio e di ricerca di significato. Anzi, è piuttosto lecito. Ma, a differenza di quanto accade nella torre in mattoni nel Sennaar, credo che in questo nuovo scenario la pluralità di punti di vista sia la base per il futuro accordo sociale, e quindi per la collaborazione. Perché il prossimo patto tra le parti sia più democratico e collaborativo, vanno considerati i nuovi parametri e le nuove esigenze su cui stiamo costruendo le attuali abitudini lavorative. Negli anni della pandemia abbiamo assistito allo spopolamento degli uffici, alla migrazione verso città più piccole e timide dal punto di vista attrattivo, alla rivincita dei borghi, delle città natali e di quelle lambite dal mare. Dal fenomeno del south working, ovvero la possibilità di lavorare dal Sud Italia che ha fatto tanto parlare di sé negli ultimi anni, siamo passati alla sua declinazione per ogni latitudine – è il caso del north working, di quei professionisti che lavorano da un bel rifugio sulle Dolomiti. Considerato l’enorme esodo delle Grandi dimissioni, il potere negoziale del personale specializzato è aumentato, e uno degli aspetti su cui ci si ritrova spesso a discutere prima della firma di un contratto è, appunto, da dove poter lavorare.
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