Al di là degli esempi più eclatanti che si riferiscono al tentativo di rifuggire dal dolore, abbiamo perso la capacità di tollerare anche forme minori di disagio. Cerchiamo costantemente di distrarci dal momento presente, e di divertirci. Come scrisse Aldous Huxley in Ritorno al nuovo mondo, “lo sviluppo di una vasta industria delle comunicazioni di massa, il cui obiettivo principale non era trasmettere il vero e neppure il falso, bensì ciò che è frivolo e irrilevante… ha fallito nel non prendere in considerazione l’infinito appetito dell’uomo per le distrazioni.” Sulla falsariga, Neil Postman, l’autore di Divertirsi da morire, un classico degli anni Ottanta del secolo scorso, ha scritto: “Gli statunitensi non si parlano più, si intrattengono a vicenda. Non si scambiano idee, si scambiano immagini. Non argomentano con le proposizioni, bensì per mezzo del loro bell’aspetto, della celebrità e della pubblicità.”
La mia paziente Sophie, una studentessa di Stanford, proveniente dalla Corea del Sud, si è rivolta a me per ricevere aiuto in merito all’ansia e alla depressione. Tra le varie cose di cui abbiamo parlato, mi ha confidato che trascorre la maggior parte delle sue ore di veglia connessa a qualsivoglia dispositivo che le consenta di accedere a una piattaforma: Instagram, YouTube, ascolto di podcast e playlist. Nel corso di una seduta le ho suggerito di provare a camminare, quando si recava lezione, senza ascoltare nulla, lasciando che i suoi pensieri affiorassero liberamente in superficie. Mi ha guardato, esprimendo una singolare commistione di incredulità e spavento. “Perché dovrei farlo?” mi chiese, restando a bocca aperta.