Nel mondo altamente competitivo dello sport, la vittoria è spesso determinata dal margine più sottile. Una frazione di secondo, o millimetro, può sollevare un atleta fino a raggiungere altezze gloriose e affondarne un altro nelle profondità della sconfitta. Tradizionalmente, nell’esaminare le prestazioni sportive, i ricercatori e gli allenatori si sono concentrati sui fattori fisici. Tuttavia, la crescente consapevolezza della psicologia dello sport ha portato allenatori e atleti a riconoscere che, tra i fattori psicologici che svolgono un ruolo critico nelle prestazioni, un posto di rilievo è occupato dall’autoefficacia.
Nella sua forma di base, l’autoefficacia è la convinzione di saper svolgere un compito. È essenzialmente una questione di “saper di saper fare”. Sono capace di correre a questa velocità per tutta la durata della gara? Sono capace di servire la palla in modo efficace, potente e preciso? Sono capace di gestire lo stress che comporta giocare una finale a Wimbledon? La risposta che si ottiene, e il grado di certezza nella risposta, è un potente predittore del comportamento, infatti le ricerche svolte su diversi atleti dimostrano che i soggetti con un’elevata autoefficacia hanno livelli più alti di tolleranza al dolore, allo sforzo e più disposizione a perseverare davanti alle difficoltà rispetto ai loro colleghi con bassa autoefficacia.
Il concetto è abbastanza semplice: se so di potercela fare sarò più disposto a tenere duro più a lungo e ad andare avanti. Se, al contrario, la sfida o l’avversario supera le mie reali capacità, sarò meno disposto a resistere perché l’assunto di fondo è che questo non basterà per vincere o superare la sfida. Ce l’abbiamo tutti un amico che un giorno ha detto: “Non sono capace!” e ha abbandonato ogni interesse nell’attività che stava cercando di svolgere.