Per vedere da vicino la situazione, abbiamo guidato per quattro ore dalla capitale dello Zambia, Lusaka, fino a un villaggio con un pozzo […]. Lo staff conosceva una famiglia che viveva vicino alla strada. La figlia, Wema, aveva quattordici anni e ogni giorno, dopo la scuola, andava al pozzo a prendere l’acqua per la sua famiglia. Aveva accettato di farci camminare con lei, ma quando siamo arrivati a casa sua non c’era nessuno. Non solo in casa, ma in tutta la zona. Non c’era un centro del villaggio che riuscissi a individuare; tutte le capanne erano sparse. Alla fine abbiamo visto Wema avvicinarsi a noi, lungo il sentiero. Portava dei libri e indossava un semplice vestito blu che sembrava un’uniforme scolastica. Ci ha salutati timidamente, poi ha posato i libri ed è andata a prendere la jerrican della sua famiglia. All’inizio, mentre camminavamo verso il pozzo, la conversazione fu imbarazzante […]. Non parlavamo la stessa lingua, quindi abbiamo dovuto affidarci a un interprete. Tuttavia, mentre camminavamo, tutti gli altri si sono allontanati, lasciandoci un po’ di spazio. Le sue risposte alle mie domande erano piuttosto brevi, ma dopo un po’ ci siamo rilassati e anche i silenzi ci sono sembrati abbastanza naturali.
Era una passeggiata tranquilla lungo una strada di campagna. Dopo circa mezz’ora siamo arrivati al pozzo. Qualcuno mi ha suggerito di fare un tentativo. Avevo appena finito di girare uno dei film di Jason Bourne, quindi pensavo di essere abbastanza in forma. Ma pompare l’acqua da quel pozzo era più difficile di quanto sembrasse. Io e Wema abbiamo riso mentre litigavo con la pompa. Lei invece era incredibilmente abile nell’azionarla e poi nel sollevare quella grossa e pesante tanica gialla sulla testa,
dove la teneva in equilibrio con l’aiuto di una mano. Era facile ammirarla, finché non ci si ricordava (se ci si era permessi il lusso di dimenticarlo) che per lei si trattava di un lavoro: un’incombenza inevitabile ed essenziale.