Quella del podcaster è una professione che non esiste fuori dall’ambito del digitale. Prima dell’arrivo di Internet non esisteva e prima di assistere all’affermazione dei podcast abbiamo dovuto aspettare l’arrivo degli smartphone. La professione del podcaster è qualcosa che si sta costruendo proprio in questo momento, mentre stai leggendo queste pagine. Si sta creando un ecosistema che vede investimenti miliardari di grandi aziende del mondo tecnologico, che si affacciano a questo settore con approcci e modelli di business differenti. C’è tanto entusiasmo intorno ai podcast, che esistono da tempo, ma che oggi si stanno affermando tra le scelte del pubblico, come dimostra l’acquisizione da parte di Spotify per circa cento milioni di dollari del Joe Rogan Experience, uno dei podcast più seguiti al mondo, per averlo in esclusiva sulla sua piattaforma. Oppure il podcast dell’ex first lady statunitense Michelle Obama nel quale dialoga con una serie di ospiti sulle relazioni che ci formano, dai genitori, agli amici più stretti, ai partner, anche in questo caso su Spotify. In Italia, si affacciano a questo mondo personaggi noti al pubblico, come Alberto Angela, che ha creato per Audible un podcast del suo libro su Cleopatra. Tutto questo fermento intorno al mondo dei podcast, che non si era mai visto prima, fa di quello che stiamo vivendo una sorta di anno zero del fenomeno, soprattutto per il nostro Paese, dove solo ora si comincia a parlarne diffusamente e a sperimentare. Prima di andare avanti vorrei chiarire un punto: il podcast non è la radio. Parliamo di podcast per riferirci a un prodotto audio che si ascolta on demand, cioè quando vuoi e dove ti è più comodo. Le radio, anche quelle che trasmettono sul web, vivono della diretta. Anche se i programmi sono registrati e post-prodotti hanno quel genere di impostazione, perché le radio viaggiano per onde nell’etere e hanno quell’imprinting, quello del parlato in diretta. Il podcast ha invece tutt’altra diffusione: quella dell’online, con regole diverse.
Il podcast è un nuovo modo di ripensare l’audio, che va oltre la radio: quello dell’ascolto quando, come e dove voglio, che offre la possibilità della post-produzione e del montaggio. Per questo spesso vi troviamo una narrazione che fa ampio uso di effetti sonori e basi musicali, ma anche di documentari e altri contributi mixati con il racconto. Questa è la prima grande differenza tra podcast e radio. È vero che moltissimi dei podcast più seguiti in Italia sono un estratto di programmi radiofonici. Mentre scriviamo, sfogliando la classifica dei podcast più ascoltati d’Italia, troviamo La zanzara di Radio24 e i podcast di Radio DeeJay, perché questi programmi hanno dalla loro una diffusione che fa perno su una testata editoriale ben consolidata, che ha già una sua forza di distribuzione e i suoi fan. Ma accanto a questi programmi ci sono il Daily cogito dello youtuber Riccardo Dal Ferro e Parliamo di cose di Jacopo D’Alesio o il podcast di Marco Montemagno: podcaster che nella vita fanno tutt’altro, podcast realizzati senza uno staff organizzativo alle spalle e che scalano le classifiche di Apple Podcasts o Spotify, perché tutti competono alla pari sulle stesse piattaforme online. Quindi, l’altra grande distinzione tra radio e podcast è questa democratizzazione della trasmissione: se fino a qualche anno fa per avere un tuo programma audio avevi bisogno di una radio, cioè di un medium con tutta la sua struttura tecnica per la messa on air, oggi si è realizzato con i podcast il sogno di democratizzazione delle prime radio libere degli anni Settanta in Italia, che sbocciavano come funghi mettendo le antenne sopra le palazzine per trasmettere i propri programmi. I podcast hanno prima reinterpretato il linguaggio della radio, ma poi, grazie a microfoni professionali dai costi sempre più abbordabili, a programmi di montaggio del suono semplici da usare, alla possibilità di spaziare creativamente tra tantissimi formati e argomenti diversi, all’integrazione con altri media digitali, ad esempio i blog e i social media, grazie alle possibilità offerte dalla Rete e alla diffusione capillare degli smartphone e più recentemente degli assistenti vocali, hanno costruito un nuovo medium, alla portata di tutti, che ha dei luoghi dedicati dove produrre e ascoltare contenuti per le nostre orecchie: Spreaker, Spotify, Audible e altri ancora di cui parleremo nelle prossime pagine. I propulsori di questa crescita straordinaria sono diversi. La possibilità di fruire dei contenuti on demand è stato il primo: sperimentando su Internet, le radio hanno scoperto che si vuole ascoltare quello che più interessa nel momento in cui più ci si sente pronti ad ascoltarlo. Ma un secondo elemento cruciale è stato la serialità. Lo spacchettamento della narrazione in episodi è il fattore che ha generato l’interesse a seguire le puntate l’una dietro l’altra: un elemento che fa parte della nostra epoca, come vediamo nel settore video con Netflix e le altre piattaforme di streaming, che ci hanno abituato a questo elemento che esiste anche nei podcast. Un terzo elemento è dato dal miglioramento e dalla crescita della tecnologia.
Gli specialisti del posizionamento dei contenuti nei motori di ricerca segnalano da anni che le ricerche vocali di Google (e degli altri provider di servizi analoghi nel mondo) arriveranno a equipararsi a quelle testuali, senza bisogno di utilizzare tastiera e display. Il fatto che Twitter abbia aperto alla pubblicazione delle note audio integrate nei tweet, ovviamente di soli 140 secondi, così come la lunghezza dei tweet era di 140 caratteri prima di passare agli attuali 280, dimostra l’interesse dei social media nei confronti del mondo dell’audio. Un altro impulso, almeno in Italia, è stato dato da Audible che, nata per la diffusione di audiolibri, si sta oggi specializzando sempre più nella diffusione e nella produzione di podcast originali. In soli tre anni ha prodotto oltre 60 serie per il suo catalogo italiano. La presenza alle sue spalle di un gigante del web come Amazon, nel quale Audible è confluita nel 2008, ha dato una spinta nel far conoscere i podcast a un pubblico più ampio, attraverso campagne pubblicitarie trasmesse anche in televisione. Ha anche investito nella creazione di contenuti di qualità e in produzioni con nomi noti al grande pubblico sulla piattaforma italiana, da Auris di Sebastian Fitzek, narrato da Adriano Giannini, al podcast di lezioni d’inglese Listen and Learn dello scomparso John Peter Sloan, a quelli a sfondo storico di Alessandro Barbero. Ma Audible ha anche creato un modello di business alternativo alla pubblicità, quello dell’abbonamento: paghi una piccola somma di denaro ogni mese per ascoltare delle storie in audio di qualità da un catalogo in continuo aggiornamento. Questo modello di business, che in America pare arrancare davanti a una produzione praticamente sterminata di podcast gratuiti che riescono a sostenersi con la pubblicità, per i podcaster italiani è invece una strada più semplice e interessante per guadagnare dai propri contenuti. In un mercato che sta muovendo ora i suoi primi passi, come quello italiano e di gran parte d’Europa, dove la pubblicità non riesce a coprire i costi di una produzione complessa, vendere un’idea ad Audible o a una piattaforma editoriale che possa produrre il podcast è un’opzione interessante per chi voglia vivere di questa professione. La piattaforma che più di ogni altra ha dato impulso al settore è stata Spotify, che, negli ultimi tre anni, al servizio di streaming musicale ha affiancato la diffusione dei podcast, sui quali, rispetto ai contenuti musicali, ha margini di guadagno maggiori perché non deve contrattare i diritti dei brani con le etichette discografiche. Inoltre, rispetto alla musica, che si può ascoltare alla stessa maniera su ogni piattaforma, da Amazon Music a Pandora, le serie podcast possono essere trasmesse in esclusiva, da Spotify così come dalle altre piattaforme.