Recentemente ho incontrato Yvon Chouinard, il fondatore di Patagonia, un’azienda che produce articoli per il tempo libero. Il suo ufficio era sistemato in un edificio con decori a stucco e tinte pastello, nascosto fra eucalipti e jacarande, in una tranquilla posizione alla fine di un vialetto. All’interno gli spazi erano semplici e rilassanti, con mobili classici di legno massiccio, grandi vetrate e qualche felce che pendeva dalle travi a vista. I dipendenti, in pantaloni corti e sandali, che si muovevano fra gli uffici sembravano perfettamente a loro agio, come se stessero passando dalla cucina alla stanza da letto di casa loro. Il sole filtrava fra cascate di glicini, al di là delle quali l’occhio poteva spaziare sulla distesa dell’oceano, con le Channel Islands che chiudevano l’orizzonte. Di tanto in tanto le risate di bambini salivano dall’asilo nido al pianterreno. Mi complimentai con Chouinard per il bel posto che era riuscito a ritagliare da un edificio industriale abbandonato, vecchio di circa un secolo. “Sì,” rispose “nessuno costruisce qualcosa del genere se ha intenzione di quotarsi in Borsa entro tre anni, incassare e sparire. Perciò cerchiamo di agire come se questa impresa dovesse stare qui altri cent’anni.”
Il programma di Chouinard fa appello a un aspetto fondamentale della natura umana: tutti abbiamo bisogno di stabilità nella vita. Ma non basta sapere che domattina il sole sorgerà e che in primavera rifioriranno le robinie. Dobbiamo anche sapere che, nonostante il caos e l’entropia, vi è un certo ordine e una certa permanenza nelle nostre relazioni, che le nostre vite non sono sprecate e che lasceremo qualche orma nella sabbia del tempo. In breve, dobbiamo essere convinti che la nostra esistenza serve a
uno scopo utile e che ha valore. In passato la famiglia costituiva il punto focale della vita quotidiana; poi, per diversi secoli, quel ruolo è stato assunto dalla Chiesa, nonché dalle comunità locali che si sono prese cura dei loro membri. In tempi più recenti alcune eminenti entità economiche – fabbriche, banche, antiche istituzioni mercantili – hanno offerto luminosi esempi di responsabilità sociale.
Oggi i leader d’impresa non possono alimentare un positivo clima di ordine se la loro sola preoccupazione è quella di realizzare profitti; devono avere anche una visione che dia significato alla vita, che offra alla gente una speranza per il proprio futuro e quello dei loro figli.
Abbiamo imparato come si fa a creare l’effimero manager di un giorno o di un’ora. Ma faremmo bene a chiederci com’è fatto un buon dirigente che aiuta a costruire un futuro migliore. Soprattutto, abbiamo bisogno del manager per cent’anni alla guida delle grandi imprese.
Dall’altra parte dell’Atlantico, in un elegante appartamento di Milano, a quattro passi dalla Scala, Enrico Randone parla della sua carriera. Ha cominciato a lavorare per la società Assicurazioni Generali quando, ancora adolescente, rimase orfano di padre e dovette mantenere la madre e diversi fratelli e sorelle. Ora ha ottant’anni, è stato presidente e segretario del consiglio d’amministrazione dall’età di sessantanove anni – l’uomo più giovane a ricoprire queste cariche nei 250 anni di vita dell’azienda. In quasi tutte le città italiane gli uffici della compagnia sono insediati in un antico palazzo del centro storico. “Ogni polizza che emettiamo è coperta da oro o da immobili”, dice Randone parlando dell’azienda che egli venera più della Chiesa, più del governo, più di qualsiasi altra istituzione terrena. “È un fatto incontestabile che ciascuno dei nostri 20.000 dipendenti è orgoglioso di far parte dell’azienda.” Nel mondo odierno sono soprattutto le imprese ad avere il potere e la responsabilità di rendere le nostre vite agiate e sicure. Ma quante imprese stanno effettivamente raccogliendo questa sfida? A quanti laureati in Economia si insegna che un “bilancio” basato esclusivamente sui conti finanziari è una tragica semplificazione? Mentre le imprese continuano a dissolversi, evolversi e trasformarsi, licenziando dipendenti e ripudiando impegni, sembrerebbe che siano sempre più rari gli individui
che prendono sul serio tali responsabilità.
Esistono tuttavia dei dirigenti che non si sentono chiamati a gestire le cose per i prossimi cinque minuti, per un’ora o per dieci anni. Al pari di Enrico Randone, sentono che il loro impegno durerà tutta la vita, e che le sue conseguenze andranno anche oltre. Per molti versi il nostro futuro dipende da questi leader visionari.
Yvon Chouinard iniziò a lavorare come fabbro ambulante perdutamente innamorato della montagna. Passava tutto il tempo che poteva fra le pareti vertiginose delle Sierras, scegliendo sistematicamente i percorsi più rischiosi. Divenne una leggenda fra gli scalatori. Grazie alla capacità di lavorare i metalli riusciva a forgiare attrezzature per arrampicata migliori di quelle prodotte da altri. Nei campi base cominciò a vendere chiodi e moschettoni che teneva in scorta nel bagagliaio della sua vecchia station wagon. In pochi anni aveva creato una fiorente attività di produzione di attrezzature per scalatori. Ma la rosa del successo aveva la sua spina: mentre l’alpinismo cresceva in popolarità, le maestose facciate di roccia divennero bucherellate e deturpate dagli attrezzi che le martellavano. Alcuni produttori consideravano questa circostanza come il prezzo inevitabile del progresso e continuavano a forgiare a tutto spiano le attrezzature tradizionali richieste da un mercato in espansione. Ma quando Chouinard si accorse che stava contribuendo a rovinare le montagne che tanto amava, trovò la cosa insopportabile e decise di cambiare strada.
Inventò quindi un nuovo modo di scalare con attrezzi che potevano essere collocati nelle fessure già esistenti e rimossi facilmente, preservando le pareti delle montagne. Infine abbandonò completamente la linea delle attrezzature e iniziò a produrre indumenti per scalatori – ma indumenti talmente resistenti da soddisfare un fabbro. Ma il passaggio dalle attrezzature all’abbigliamento non cambiò l’obiettivo dell’azienda. “Secondo la nostra concezione, ogni prodotto che facciamo dev’essere il migliore del mondo”, dice Chouinard. “Non uno dei migliori: il migliore. Qualsiasi cosa facciamo, che sia un paio di pantaloni o una camicia, dev’essere così.” Per
costruire un’impresa che duri si deve credere nel valore del proprio lavoro. Se un’impresa non aspira a essere la migliore della sua specie, attrarrà dipendenti poco abili e sarà presto dimenticata.
All’inizio del secolo scorso, in una cittadina del Midwest, circa 40 miglia a sud-est di Indianapolis, un banchiere acquistò un “carro senza cavallo”. Con il carro c’era un conducente, che si dà il caso fosse un arguto ingegnere, il quale convinse il banchiere che i motori diesel avevano un futuro brillante. Così i due uomini cominciarono a sperimentarli, costruirono una piccola fabbrica, e il banchiere continuò a investirvi una quantità crescente del patrimonio familiare, ma per vent’anni non si vide neppure l’ombra di profitto. Poi le cose cominciarono a migliorare, e oggi i motori diesel prodotti da Cummins a Columbus, nell’Indiana, equipaggiano molti degli autocarri che attraversano il continente.
Chi opera in quel settore non ha mai avuto vita facile. Quasi ogni anno una nuova crisi – il miglioramento di un prodotto della concorrenza, una scarsità di liquidità, un embargo petrolifero, nuove normative sulle emissioni – ha minacciato la sostenibilità dell’azienda. Ogni qualvolta il mercato l’ha sottovalutata ed esposta al rischio di una scalata, la famiglia ha rastrellato una quantità di azioni sufficiente a proteggerne l’autonomia. “Il motivo per cui lo facciamo,” spiega J. Irwin Miller, rampollo della terza generazione che gestisce l’azienda “è un obbligo che sentiamo verso la comunità. Avremmo potuto trasferirci dove il lavoro è meno caro, ma a che cosa serve fare più soldi se si devono sradicare migliaia di persone che conoscete e in cui avete fiducia?”
Come ogni imprenditore sa, la sopravvivenza di un’impresa non è mai garantita; anno dopo anno, mese dopo mese, si devono affrontare una serie di rischi – anche quando il profitto è l’unico obiettivo. La situazione diviene ancora più difficile quando l’impresa persegue scopi che vanno al di là del mero guadagno finanziario. Quando, per evitare di deturpare le montagne, Yvon Chouinard ha convertito la produzione di Patagonia da attrezzature per scalatori a indumenti, si è servito soprattutto del cotone. Gradualmente cominciò a realizzare che il cotone coltivato con metodi industriali incide per il 25 per cento sull’impiego mondiale di pesticidi: ci vogliono più di nove litri di petrolio – la base dei pesticidi – per fare una camicia di cotone. Cominciò allora a utilizzare, per i suoi tessuti, cotone da coltivazione biologica, benché fosse più costoso. La domanda da parte della sua impresa incoraggiò i coltivatori a produrre più cotone biologico e, negli anni, un numero crescente di produttori, come Nike, Gap e Levi Strauss, seguirono l’esempio di Patagonia, almeno in parte. La fibra naturale rappresenta ancora una piccola percentuale della produzione totale di cotone, ma il suo impiego sta crescendo e la sua validità dimostra che le aziende non devono essere necessariamente schiave dell’avidità e del guadagno quando questi elementi contrastano con obiettivi più importanti.
Ma non è necessario essere un leader per credere in ciò che si fa e per pensare in modo lungimirante. Questi non sono lussi o prerogative dell’élite. Il commesso di una ditta di spedizioni o il cuoco di una trattoria che sentono la responsabilità del loro lavoro
hanno maggiori probabilità di andare avanti e avere successo. E, per di più, lavorano con piacere e sentendosi in accordo con se stessi. Questo risultato, e non soltanto il profitto, dà la vera misura del guadagno generato da ogni attività umana, compresa quella
economica.
Come ha scritto Schumpeter molto tempo fa, “la distruzione creatrice” è la strada che porta alla produttività. Può darsi che egli avesse ragione per quanto concerne la creazione di valore per l’azionista, ma se adottiamo una concezione più ampia del benessere, allora la distruzione creatrice deve essere temperata dall’attenzione a valori duraturi. Per di più, quando la “distruzione” consiste nello spezzettare le imprese e disperderne al vento i dipendenti come rifiuti inservibili, non è in alcun senso “creatrice”, è soltanto un espediente tattico al servizio dell’avidità. Per resistere a queste forze entropiche abbiamo bisogno di leader molto lungimiranti.