La mia ossessione per l’irrazionalità moderna ha preso piede mentre stavo scrivendo un libro sulle sette. Era il 2020 ed esplorare l’influenza che avevano avuto nel pasticcio esistenziale di quell’anno ha gettato nuova luce sulle molte sfaccettature dello squilibrio mentale del ventunesimo secolo. Con il nuovo millennio, l’umanità aveva costruito un mega centro commerciale stracolmo di modi di dissociarsi nuovi e bizzarri. Teorie del complotto del tutto marginali erano diventate opinione comune. L’adorazione delle celebrità aveva raggiunto vette deliranti. I fan adulti della Disney e i trumpiani d’assalto erano ubriachi fradici di nostalgia, persi in chimere del passato. Di false credenze ce n’erano per tutti i gusti, da quelle eccentriche a quelle belliciste, ma una cosa era certa: la nostra presa condivisa sulla realtà era saltata.
Ai miei occhi, l’unica spiegazione sensata per questo trip mentale di massa aveva a che fare con i bias cognitivi: schemi di pensiero auto ingannevoli che si sono sviluppati a causa dell’incapacità del nostro cervello di elaborare le informazioni provenienti dal mondo che ci circonda. Nel corso dell’ultimo secolo le scienze sociali hanno descritto centinaia di bias cognitivi, anche se il “bias di conferma” e la “fallacia dei costi irrecuperabili” erano i due che saltavano fuori più spesso nella mia ricerca. Mi è bastato dare una scorsa ad alcuni di questi studi per mettere a fuoco buona parte dell’illogicità del nostro tempo, da gente con un master che decide i propri impegni sociali in base alla posizione di Mercurio, ai vicini di casa che decidono di non vaccinarsi perché una YouTuber in pantaloni palazzo ha detto che il vaccino rischia di “degradare il nostro DNA”. I bias cognitivi spiegavano anche una marea delle mie stesse irrazionalità, scelte personali che non avrei mai potuto giustificare, come la decisione, a vent’anni, di portare avanti una relazione che sapevo mi avrebbe fatto soffrire, o la mia tendenza a fabbricare nemici online sulla base di conflitti inventati da me.
Dovevo trovare il bandolo della matassa. Dovevo capire in che modo questi trucchetti mentali che facciamo a noi stessi si combinano al sovraccarico di informazioni dando vita a un esperimento di chimica impazzito: Mentos e Diet-Coke.
La mente umana illude se stessa fin dagli albori del processo decisionale. La quantità di input provenienti dal solo mondo naturale è sempre stata eccessiva per poterla gestire; classificare il colore e la forma esatti di ogni ramoscello avrebbe richiesto più di una vita intera. Quindi, i cervelli dei nostri antenati si sono inventati delle scorciatoie che consentivano di comprendere l’ambiente circostante quanto bastava a sopravvivere. La mente non è mai stata razionale in assoluto, quanto piuttosto razionale nella gestione delle risorse, ossia orientata a conciliare fra loro tempo finito, capacità di memoria limitata e il caratteristico desiderio di dare un senso a ciò che accade. Nel corso del tempo, la quantità di particolari da elaborare e di decisioni da prendere è esplosa come una fontana di coriandoli o di schegge di proiettile. Non possiamo certo pensare di rimuginare su ogni dato quanto vorremmo. Di conseguenza, tendiamo ad affidarci ai trucchi astuti dei nostri antenati, che ci vengono così automatici da non esserne quasi mai consapevoli.
Di fronte a un improvviso eccesso di informazioni, i bias cognitivi spingono la mente moderna a pensare troppo, o troppo poco, alle cose sbagliate. Torniamo ossessivamente sulle stesse paranoie (perché Instagram mi suggerisce di seguire il mio ex capo tossico? Non sarà che l’universo mi odia?) e invece prendiamo alla velocità della luce decisioni complesse che esigerebbero più attenzione. Ho provato più di una volta il senso di disorientamento tipico di quando ci si ritrova in una disputa intellettuale online e alla fine si ha la sensazione fisica di aver usato tattiche di combattimento più adatte a un predatore del Neolitico che a una discussione teorica.
“Credo sia dovuto al fatto che negli ultimi cento anni abbiamo fatto tali e tanti progressi tecnologici, da indurci a pensare di poter conoscere tutto. Ma è arrogante, oltre che spaventosamente noioso” ha detto nel 2023 Jessica Grose, editorialista del New York Times e autrice di Screaming on the Inside: The Unsustainability of American Motherhood (Urlare dentro: l’insostenibilità della maternità americana). Ho definito questa nuova epoca, in cui ci stiamo lasciando alle spalle a una velocità folle le illusioni che un tempo ci tornavano utili, l’“era dell’eccesso di pensiero magico”.
L’espressione “pensiero magico” descrive in generale la convinzione che i nostri pensieri possano influenzare gli eventi esterni. Una delle prime volte che ne ho sentito parlare è stato leggendo il memoir di Joan Didion, L’anno del pensiero magico, in cui l’autrice mostra come il dolore per una perdita possa spingere all’autoinganno anche le menti più consapevoli. Mitizzare il mondo nel tentativo di “dargli un senso” è una curiosa abitudine che appartiene solo agli esseri umani. In momenti di grande incertezza, come la morte improvvisa di un coniuge o una stagione elettorale concitata, anche cervelli che in altre circostanze sarebbero “logici” iniziano a cedere. Che sia la convinzione di poter “manifestare” una via d’uscita dalle difficoltà finanziarie, sventare l’apocalisse imparando a mettere le pesche in barattolo, tenere lontano il cancro con vibrazioni positive o trasformare una relazione abusante in un rapporto magnifico con la sola speranza, il pensiero magico lavora al servizio dello sportello della consolazione. Ma se il pensiero magico è una consuetudine che risale alla notte dei tempi, pensare troppo sembra tipico dell’era moderna – un prodotto dello scontro fra le nostre superstizioni innate e il sovraccarico di informazioni, la solitudine di massa e una pressione capitalistica a “conoscere” tutto quanto esiste sotto il sole.