Cambiare noi stessi per cambiare il mondo
Molti anni fa, in un periodo in cui ero profondamente depressa, spesso avvertivo una presenza strana, come se qualcuno si sedesse sul bordo del mio letto nelle prime ore della mattina. Era come un’ombra, alta e sottile, ben diritta e ferma. Sapevo che non era una presenza fisica, ma sentivo che era lì. E sapevo anche chi era. Non riesco a dire quanto abbia significato per me la sua presenza. Non ha mai pronunciato una parola, né mi ha inviato alcun messaggio. Era semplicemente lì, e lo sentivo intorno a me, non solo la notte. Di giorno sentivo il suo sguardo su di me. In quel periodo ero sola e depressa e tutta la mia vita era in uno stato di tremenda confusione. Sapevo di essere diventata una persona piuttosto patetica. Avevo capito che le persone mi guardavano con compassione, pensando: “Che peccato per Marianne.” Anni dopo mia cugina mi ha confidato che in quel periodo mio padre, con le lacrime agli occhi, le aveva detto: “Non so come comportarmi con una figlia tanto desolata.”
Ed ero davvero desolata. Sapevo che stavo attraversando un momento molto difficile e non era per niente certo che sarei tornata a essere la persona che ero prima. Dal fondo della disperazione, ho cominciato a cercare di negoziare con Dio. Se mi aiutasse, se mi sollevasse e mi restituisse la mia vita di prima, allora affiderei a lui il resto dei miei anni e farei tutto ciò che Lui desidera.
Sono trascorsi mesi e, lentamente e gradualmente, con il sostegno di uno psichiatra eccellente, con l’amore di famigliari e amici e certamente con l’aiuto di Dio, ho ripreso a vivere. Ricordo che un giorno, mentre ero al lavoro, mi è capitato di sentire ancora una volta la presenza che era stata accanto a me in quei mesi. Quella volta però non ho avvertito un conforto, quanto piuttosto una violazione.
Dentro di me, gli ho parlato: “Ascolta, ti sono davvero grata per essermi stato accanto per tanto tempo. Mi hai aiutato, ma adesso va meglio e so che hai molte altre persone a cui pensare. Sto molto bene. Ti ringrazio tantissimo e non dimenticherò mai quanto sei stato gentile con me quando ne avevo bisogno.” Stavo dicendo a Dio che adesso poteva allontanarsi da me.
Qualche settimana dopo, ero a una festa e camminavo da sola nella grande casa dove si svolgeva l’evento. Sono entrata in una stanza dove alcuni uomini in smoking chiacchieravano tra loro, mentre sorseggiavano qualche drink. Un uomo si è voltato a guardarmi. Era chiaro a quel punto che stessi sognando da sveglia, perché quell’uomo era Gesù. Mi ha guardato e, senza tradire alcuna emozione e senza recriminazioni, mi ha detto molto semplicemente: “Pensavo che avessimo un accordo.” E così è stato. In quel momento è cominciato il viaggio verso una destinazione che non avrei mai immaginato. Quando le persone mi chiedono: “Com’è cominciata la tua carriera?”, mi viene sempre in mente l’immagine di Gesù a quel cocktail party di tanti
anni fa. In quel periodo della vita, mi sembrava che il mio cranio fosse un vaso antico preziosissimo che era andato in frantumi. I frammenti, troppo numerosi perché riuscissi a contarli, erano esplosi nello spazio. E alla fine si è rivelato l’inizio di una nuova vita. Quando i pezzi del cranio sono tornati insieme, mi è sembrato che in me fosse entrato qualcosa di nuovo che non c’era mai stato prima.
Sì, certo, in quel periodo ero depressa, però stavo anche ricevendo informazioni di natura spirituale. Dall’altra parte della nera notte dell’anima, sapevo, vedevo e capivo cose che non avevo mai saputo, visto e capito prima. So di altre persone che raccontano di trasformazioni simili. A volte è necessario che l’attaccamento a un mondo sia scosso, perché possiamo riconoscere un altro mondo. Quando la sofferenza ci risveglia anche l’oscurità più profonda può rivelare la luce divina.
Diversi anni fa il figlio di ventun anni della mia amica Teresa è stato ucciso. Sembra impossibile immaginare un dolore più grande, ma Teresa e la sua famiglia hanno affrontato la sofferenza con uno sguardo alla vita e oltre. Oggi, diversi anni dopo la tragedia, Teresa lavora come attivista e portavoce nelle carceri e parla ai detenuti dell’importanza della pace tra vittime e trasgressori. Teresa mi ha raccontato di aver trovato la propria missione nella vita grazie a quel lavoro. Benché la rabbia per l’uccisione ingiusta del figlio sia stata un tormento e lo sia ancora, l’opportunità di parlare con altre persone detenute per lo stesso crimine ha alleviato la sofferenza di Teresa. Parlando con carcerati condannati all’ergastolo, Teresa incontra persone pentite e, nel loro rammarico e nelle offerte di collaborazione che le rivolgono, trova un conforto. Un detenuto le ha raccontato che solo adesso finalmente comprendeva la portata del dolore dei parenti della vittima. “Per quanti anni rimanga in prigione” le ha detto “Non riuscirò mai a restituire ai genitori la loro figlia.”
La profondità del rimorso di quell’uomo ha portato Teresa a riflettere sulla propria rabbia; mi ha detto che quel detenuto adesso era più libero di lei, perché l’espiazione l’aveva redento, mentre la rabbia inesorabile di Teresa continuava a tenerla bloccata. Teresa cerca di perdonare perché vuole essere libera, ma tutti comprendiamo quanto possa essere difficile. Dio lavora in modi misteriosi e Teresa dice che il lavoro di cui si occupa adesso l’ha aiutata a guarire. L’esperienza del lavoro con i detenuti le ha cambiato la vita, aprendo il suo cuore alla possibilità che ci sia una luce anche nell’oscurità più profonda. Teresa dice che il lavoro con i detenuti e come portavoce delle vittime le ha salvato la vita: “Nonostante la realtà degli atti di violenza più devastanti e orribili, adesso sento che c’è una speranza.”
Chi scegliamo di diventare
Alcune figure di spicco nella storia hanno conosciuto trasformazioni che in un’ultima istanza si sono rivelate positive, proprio affrontando esperienze devastanti. Una delle storie più interessanti è quella di Franklin D. Roosevelt, il trentaduesimo presidente degli Stati Uniti d’America.
In gioventù Roosevelt era il paradigma della persona che aveva tutto. Era alto, di bell’aspetto, brillante e facoltoso, sposato e con diversi figli. Il cugino Theodore era stato presidente degli Stati Uniti e la sua carriera sembrava garantita. Un giorno, nel 1921, mentre era in vacanza con la famiglia nella propria casa sul lago, in Canada, Roosevelt decise di fare una nuotata. Al rientro a casa, nel giro di qualche ora, cominciò ad avvertire brividi, a perdere sensibilità negli arti e, nel giro di qualche settimana, gli fu diagnosticata una poliomielite.
La tragedia però non è stata la conclusione della storia, ma, in un certo senso, solo l’inizio. Roosevelt non avrebbe mai più camminato senza l’ausilio di tutori in ferro e stampelle, ma da quella sofferenza che lo mise alla prova emerse una persona che s’impegnò al massimo per alleviare il dolore degli altri, come non aveva mai fatto nessuno prima nella storia. Tre anni dopo la diagnosi, Roosevelt si recò nella località turistica di Warm Springs in Georgia, nota per le sorgenti termali da cui sgorgava naturalmente acqua calda. Il calore alleviò la sofferenza fisica. Non meno importante, però, la gentilezza delle persone che Roosevelt incontrò in quella località fu di grande sostegno per il suo spirito. Poche persone a Warm Springs avevano mai sentito parlare dei Roosevelt di Hyde Park, nella città di New York. Non sapevano nulla della salute di Roosevelt né erano interessate al suo potere. Per le persone che incontrò a Warm Springs, in gran parte povera gente, Roosevelt era semplicemente un’altra persona che soffriva, un uomo malato che cercava sollievo dal dolore nell’acqua. Quelle persone s’interessavano a lui semplicemente perché era un altro essere umano che condivideva la loro afflizione. Attraverso quella esperienza Roosevelt conobbe e imparò ad affidarsi alla gentilezza di persone che altrimenti probabilmente non avrebbe mai incontrato. È un tema comune – un archetipo ricorrente – nel viaggio dalla sofferenza alla luce. Nelle ore più buie incontriamo alcune persone che arrivano da noi per aiutarci e spesso si presentano stranamente mascherate. Qualcuno che non avremmo mai incontrato o per cui non avremmo mai provato interesse – per non parlare del pensare di chiedergli aiuto – finisce per offrirci un sostegno fondamentale, che non avremmo potuto trovare altrove. Le persone di un dimesso centro turistico aiutarono Roosevelt a guarire come nessun dottore dei migliori istituti medici riuscì a fare. Non tutti gli angeli di Dio hanno le ali. Niente ci rende umili come ricevere l’aiuto di persone di cui non avremmo mai pensato di aver bisogno.
Anni dopo, quando Roosevelt diventò presidente, dovette confrontarsi con la sofferenza di milioni di persone rimaste in stato di indigenza in seguito alla crisi economica innescata dal crollo del mercato azionario nel 1929. Considerato il retroterra socioeconomico di Roosevelt, forse non avrebbe mai provato un’empatia profonda e viscerale per i milioni di disoccupati che vivevano in forti difficoltà durante la Grande depressione. Roosevelt era un uomo facoltoso, proveniente da una famiglia molto ricca ed emotivamente avrebbe potuto prendere con facilità le distanze da chi soffriva. Quelle persone non assomigliavano certo ai Roosevelt di Hyde Park; però erano molto simili alle persone che Roosevelt aveva conosciuto e di cui aveva imparato a fidarsi a Warm Springs, in Georgia.
Adesso toccava a lui. Dall’empatia di Roosevelt per le difficoltà affrontate dalla classe media americana a quel tempo nacque il New Deal, il piano di riforme sociali ed economiche che risollevò la vita di milioni di persone. Roosevelt non era certo un uomo perfetto – molte persone non beneficiarono di queste politiche – ma qualcuno meno empatico non sarebbe riuscito ad avviare il New Deal e forse non avrebbe nemmeno cercato di farlo. Mio padre crebbe in una famiglia povera e per tutta la vita parlò con ammirazione di Roosevelt come della persona che aveva salvato la sua famiglia d’origine dalla rovina. Fino alla sua morte, nel 1995, se chiedevi a papà per chi avesse votato alle elezioni, la risposta era sempre la stessa: “Ho votato per Roosevelt.”
La sofferenza di Roosevelt ha contribuito a trasformarlo nella persona che doveva essere perché potesse alleviare la sofferenza di milioni di persone. Quando succedono alcune tragedie non sempre riusciamo a rispondere alla domanda: “Perché è capitato a me?”, ma possiamo sempre chiederci quale gioia aspettarci da quell’esperienza.
Non sempre è possibile scegliere di evitare la sofferenza, ma possiamo far sì che la sofferenza non sia
stata vana. Dalla persona che perde la vista e diventa portavoce delle persone cieche; al genitore che crea una fondazione in memoria del figlio; all’atleta che perde un arto e allora dà avvio a un’associazione di atletica per persone che si trovano in una condizione simile, una chiave per superare la sofferenza è utilizzarla per portare gioia nella vita delle altre persone. Idealizzare la sofferenza sarebbe un errore, ma sarebbe sbagliato anche sminuirne l’importanza per la formazione della personalità. Come scrive il poeta Khalil Gibran: “Dalla sofferenza emergono le anime più forti, le personalità più imponenti sono cosparse di cicatrici.”
Troppe persone si lasciano rattristare da cose prive di importanza, forse perché non vogliono lasciarsi sopraffare dalla tristezza per le tragedie più ampie della vita. Carl Jung ha detto: “La nevrosi è sempre un sostituto della sofferenza legittima.” Se accettiamo di vivere e provare sofferenza per episodi che riguardano noi in prima persona oppure altri, paradossalmente aumentiamo le possibilità di sperimentare una splendida felicità. Niente ci rende più forti che uscire dagli abissi più profondi della disperazione per camminare verso le vette più alte della gioia, e nessuno ci spinge quanto gli angeli che ci ricordano di non dimenticare tutti gli altri che stanno scalando la montagna insieme a noi. Una volta raggiunta la cima, scopriamo che non stiamo più piangendo e, cosa ancora più importante, scopriamo che non siamo più soli.
Se comprendiamo che in questa vita la felicità costante non ci è promessa, arriviamo ad accettare con una maggiore maturità gli alti e i bassi dell’esistenza umana. Non sempre tutto va come vorremmo, non tutto è sotto il nostro controllo e, qualunque cosa accada, la vita sulla Terra è solo un passaggio temporaneo. Se siamo onesti con noi stessi, riconosciamo che ogni giorno possiamo soffrire. La gioia però non nasce dalla fiducia nel fatto che ogni giorno andrà come vogliamo; a volte sboccia semplicemente nel momento in cui ci rendiamo conto che proprio oggi tutto va bene, e ne siamo contenti. I periodi difficili della vita, tra le altre cose, ci portano a provare una gratitudine maggiore quando invece va tutto bene. Se abbiamo perso qualcosa di prezioso, impariamo
a essere molto più felici di quanto abbiamo. La sofferenza può lasciare qualche cicatrice, però, in modi quasi misteriosi, possiamo diventare persone migliori proprio perché l’abbiamo attraversata. A volte accorgersi che “non saremo mai più gli stessi” non è poi così male. Non saremo più quelli di prima, ma chi diventeremo dipende completamente da noi.