Nel 1986, McDonald’s annunciò il progetto di aprire un nuovo enorme ristorante, con oltre 450 posti a sedere, in Piazza di Spagna a Roma, vicino alla scalinata di Trinità dei Monti. Molti italiani non erano contenti. I consiglieri comunali cercarono di bloccare l’apertura, mentre lo stilista Valentino, che aveva un atelier in zona, sosteneva che l’odore degli hamburger avrebbe rovinato i suoi abiti di alta moda. “Quello che ci disturba di più è l’americanizzazione della nostra vita”, denunciò il regista Luciano De Crescenzo.
Il sindaco organizzò una squadra speciale di netturbini per dare la caccia agli involucri di hamburger vaganti che, secondo lui, avrebbero presto riempito le strade.
In questo contesto, un attivista e giornalista di lunga esperienza di nome Carlo Petrini lanciò un nuovo movimento che chiamò Slow Food. Un manifesto ne definiva gli obiettivi:
Contro coloro, e sono i più, che confondono l’efficienza con la frenesia, proponiamo il vaccino di una adeguata porzione di piaceri sensuali assicurati, da praticarsi in lento e prolungato godimento. Opportunamente, inizieremo dalla cucina, con lo Slow Food. Per sfuggire alla noia del “fast-food”, riscopriamo le ricche varietà e gli aromi delle cucine locali.
In tutta Italia cominciarono a nascere altre sezioni locali di Slow Food. Il gruppo promuoveva pasti lenti, consumati in compagnia, a base di ingredienti locali e di stagione. Dopo un po’ di tempo, il gruppo si è fatto carico di obiettivi affini, come l’introduzione di programmi alimentari a carattere regionale nelle scuole e l’impegno a preservare i cibi tradizionali, come la deliziosa albicocca vesuviana, originaria della Campania, nell’Italia meridionale. Nel 1996, il movimento ha organizzato il primo Salone del Gusto a Torino per sostenere le tradizioni alimentari e gli artigiani locali. L’evento, che si tiene ogni due anni, attira oggi oltre 200.000 visitatori che possono degustare i prodotti di oltre 1.500 bancarelle. Oggi esistono sezioni di Slow Food in 160 paesi.
All’apparenza, Slow Food potrebbe sembrare un movimento di nicchia, un gruppo di buongustai nostalgici ossessionati dalle possibilità culinarie delle albicocche italiane. Fino a poco tempo fa è così che l’avrei considerato, se avessi avuto modo di pensarci. Quando ho iniziato a confrontarmi con le questioni relative al lavoro intellettuale e alla pseudo-produttività, tuttavia, la richiesta di intenzionalità a tavola di Carlo Petrini mi è entrata in testa in modo sorprendentemente significativo.
La rivoluzione della lentezza
Mi sono imbattuto per la prima volta nel mondo di Slow Food per via del mio interesse per la parola slow, che sembrava esprimere tutto ciò che la pseudo-produttività non era. Conoscevo le basi della storia del movimento – McDonald’s, Roma, le cene lente – e pensavo che potesse fornire un’utile analogia quando si parlava di alternative al ritmo accelerato del lavoro. Leggendo meglio Petrini, però, ho scoperto che lo Slow Food non si limita ai pasti, ma rappresenta la realizzazione di due idee profonde e innovative che possono essere applicate a molti tentativi diversi di costruire un movimento di riforma in risposta agli eccessi della modernità.
La prima di queste idee è il potere delle alternative attraenti. Come sintetizza Michael Pollan in un acuto articolo del 2003 sullo Slow Food, negli anni Ottanta Carlo Petrini era “costernato dal grigiore dei suoi compagni di sinistra”. C’è una certa soddisfazione personale nell’evidenziare i difetti di un sistema, ma un cambiamento sostenibile, secondo Petrini, richiede di offrire alle persone un’alternativa di vita piacevole e stimolante. Petrini non si è limitato a scrivere un editoriale tagliente sulle forze corruttrici di McDonald’s, ma ha promosso un nuovo rapporto interessante con il cibo, che avrebbe fatto apparire il fast food come una cosa evidentemente volgare. “Chi soffre per gli altri fa più danni all’umanità di chi si diverte”, ha spiegato Petrini.
La seconda idea che si intreccia con lo Slow Food è il potere di attingere alle innovazioni culturali collaudate nel tempo.
Nell’attivismo c’è la tentazione di proporre idee radicalmente nuove, perché questo conserva la possibilità utopica di una soluzione incontaminata.
Petrini ha riconosciuto, tuttavia, che quando si trattava di presentare un’alternativa accattivante al fast food, sarebbe stato saggio attingere alle culture alimentari tradizionali che si erano sviluppate attraverso la sperimentazione per tentativi ed errori nel corso di molte generazioni. Slow Food non si limita a promuovere pasti più lunghi, ma promuove uno stile di ristorazione comunitario che nei paesini italiani è stato comune per secoli. Non si limita a promuovere ingredienti più freschi, ma raccomanda piatti che la vostra trisnonna potrebbe aver servito. Secondo Pollan, le tradizioni che sono sopravvissute alla sfida dell’evoluzione culturale hanno maggiori probabilità di essere accettate.
Nel suo articolo del 2003, Pollan ammette di essere stato inizialmente scettico nei confronti di questo aspetto nostalgico del movimento, scrivendo all’inizio del suo saggio: “Gli Slow Foodies erano cultori del passato, ho pensato, che avevano tanto da contribuire al dibattito sul sistema alimentare quanto un incontro di appassionati di buggy whip potrebbe aggiungere al dibattito sui suv.” Tuttavia, quando ha imparato a conoscere meglio l’attivismo innovativo di Petrini, il suo atteggiamento è cambiato. Slow Food non guardava al passato per sfuggire al presente, ma per trovare idee che aiutassero a rimodellare il futuro. Pollan ritratta il suo scetticismo iniziale e ammette che il movimento ha un “contributo importante da dare al dibattito sull’ambientalismo e sul globalismo”.
Una volta isolate, le due principali idee di Petrini per lo sviluppo di movimenti riformisti – concentrarsi sulle alternative a ciò che non va e trarre queste soluzioni da tradizioni consolidate nel tempo – non sono ovviamente limitate al cibo in nessun aspetto fondamentale.
Possono essere applicate a qualsiasi contesto in cui un modernismo disordinato è in conflitto con l’esperienza umana. Questa tesi è confermata dai numerosi nuovi movimenti slow sorti sulla scia del successo dello Slow Food, che hanno preso di mira altri aspetti della nostra cultura che risentivano di una frettolosità sconsiderata.
Come documenta il giornalista Carl Honoré nel suo libro del 2004, In Elogio della lentezza, questi movimenti di seconda ondata includono Slow Cities, che ha preso il via anche in Italia (dove si chiama Cittaslow) e si concentra sul rendere le città più incentrate sui pedoni, sul sostegno alle imprese locali e, in senso generale, sulle relazioni di vicinato. Tra questi ci sono anche la Slow Medicine, che promuove la cura olistica delle persone invece di concentrarsi solo sulle malattie, e la Slow Schooling, che tenta di liberare gli studenti delle scuole primarie dalle pressioni dei test di valutazione e del tracking competitivo. Più di recente, il movimento Slow Media è emerso per promuovere alternative più sostenibili e di qualità superiore al clickbait digitale, e il termine Slow Cinema è sempre più utilizzato per descrivere film realistici, in gran parte non narrativi, che ricompensano l’attenzione prolungata con una visione più profonda della condizione umana. “Il movimento slow è stato inizialmente visto come una proposta per poche persone che amavano mangiare e bere bene”, ha spiegato il sindaco di Bra, la città natale di Petrini. “Ma ora ha assunto una valenza culturale molto più ampia, che riguarda i vantaggi di fare le cose in modo più umano e meno frenetico.”
Slow Food. Slow Cities. Slow Medicine. Slow Schooling. Slow Media. Slow Cinema. Tutti movimenti costruiti sulla strategia radicale ma efficace di offrire alle persone un’alternativa più lenta e sostenibile alla frenesia moderna, attingendo alla saggezza consolidata nel tempo.