Paolo Borzacchiello
Il codice segreto del linguaggio
Che parole servono in un mondo che ci costringe a parlare attraverso schermi di vetro, a mascherarci e a star lontani dagli altri?
Tempo di lettura: 6 minuti
Al di là del momento contingente, i cambiamenti sociali prodotti dalla pandemia produrranno i loro effetti per molti, molti anni. Forse per sempre. Di fatto, il Covid-19 ci ha portato a cambiare radicalmente il nostro modo di interagire, da più punti di vista. Il primo, probabilmente quello con il quale faremo i conti per sempre, è la questione delle interazioni virtuali. Abbiamo scoperto che possiamo avere i nostri appuntamenti via web e che possiamo sostituire moltissimi incontri fisici con incontri virtuali. Chi ha più voglia, anche potendo, di farsi cento chilometri in auto o in treno quando ci si può collegare da casa o dall’ufficio? Per certi versi, si tratta di un’evoluzione: se è vero che alcune esperienze di persona sono insostituibili (penso ad esempio ai corsi di formazione che tanto amo), è anche vero che poter interagire a distanza comporta un poderoso risparmio di tempo e denaro per tutti. Al tempo stesso, dobbiamo evitare di correre il rischio che deriva dal pensare che per interagire via web basti fare le stesse cose che si facevano di persona, perché non è così.
Uno dei principali problemi legati alle interazioni virtuali riguarda l’empatia. Che cala all’aumentare della distanza. Il cervello umano, da questo punto di vista, è totalmente irrazionale: non è razionale il fatto che il vostro cervello traduca distanza fisica con distanza emotiva, ma è così che succede e la ricerca, in tal senso, è lampante. La questione è che questo fatto non lo potete controllare: se il vostro cliente o interlocutore vi chiede un appuntamento via web, l’unica cosa che potete fare è concedergli quell’appuntamento via web. Non potete, cioè, controllare la variabile “distanza fisica” ma, sapendo che questa si traduce in un potenziale problema, la potete gestire, proprio (guarda caso) attraverso il linguaggio e, in particolar modo, attraverso le cosiddette metafore incarnate, ovvero metafore che il cervello traduce in modo letterale e, appunto, “incarna”. Dire al vostro interlocutore, ad esempio, durante una web call, che gli sarete “vicino” nel suo percorso aggira l’ostacolo della distanza fisica, inganna il cervello il quale non si accorge che “vicino” è una metafora, un modo di dire, e il gioco è fatto.
Sempre parlando di distanza, fate un veloce esperimento mentale. Immaginate che chiuda un negozietto proprio sotto casa vostra. Non ci siete mai entrati, ma ci siete passati davanti molte volte. Ora è chiuso, causa Covid. Scommetto che la cosa vi turberebbe almeno un poco. Anzi, vi toccherebbe, almeno un po’, da vicino. Supponiamo ora che un negozio molto simile chiuda in uno sperduto villaggio di un paese lontano lontano. Non gli dedichereste nemmeno un pensiero. Eppure, a livello razionale, dovreste sperimentare le stesse emozioni. Che cosa cambia, invece? La distanza, appunto. Ed eccoci al distanziamento sociale, che ci costringe a star lontani, a non toccarci, a guardarci con sospetto. Che fine faranno le interazioni umane? Perderemo la capacità di empatizzare con altri esseri umani? Diventeremo tutti freddi come il ghiaccio? Chissà. Nel frattempo, usiamo la magia delle parole per compensare gli effetti di tutto quel che sta capitando.
Gli elementi da considerare sono molteplici. Il materiale vetro, proseguendo nell’analisi dello scenario Covid-19, per le sue caratteristiche intrinseche, produce nel cervello umano senso di freddezza e di fragilità. Ci rende più insicuri, più guardinghi e instilla in noi un senso di diffidenza verso l’altro (verificate che cosa succede se tentate di far camminare un cucciolo o un bambino piccolo su una lastra di vetro, per quanto solida, sotto la quale si vede il vuoto). Ebbene, come dicevo, molte interazioni oggi si sono evolute (o involute, dipende dai punti di vista) da interazioni “face to face” a interazioni “virtuali”, mediate da display, per l’appunto, di vetro. Che si tratti del monitor di un pc o dello schermo di uno smartphone, ci parliamo attraverso vetri. È piuttosto intuitivo comprendere che l’empatia fra gli interlocutori potrebbe subirne un pregiudizio.
Altra questione riguarda i dispositivi sanitari che dobbiamo utilizzare per proteggerci dal contagio: mascherine chirurgiche, disinfettanti per le mani e termometri puntati in fronte come se fossero pistole (o scanner termici che ti accolgono nei negozi, non fa molta differenza) producono un costante senso di allarme nel nostro cervello rettile: tronco encefalico e amigdala vivono uno stress permanente e noi, per questo, ci troviamo costantemente stimolati da ormoni e neurotrasmettitori dello stress, come cortisolo e ossitocina. Anche in questo caso, per quanto possiamo sentirci confidenti e sicuri, possiamo farci ben poco: la cognizione incarnata riguarda anche i vestiti e gli accessori che indossiamo e, non bastasse questo, il continuo richiamo a idee come germi, virus e febbre non migliora di certo le cose. L’odore di disinfettante evoca l’idea di un ospedale, e non serve un esperto di comportamento umano per spiegarvi che tipo di emozioni possa suscitare l’idea di corridoi asettici, medici con mascherine (appunto) e malattie di varia natura.
Se è vero che non possiamo far niente rispetto alle situazioni di cui sopra, possiamo invece fare molto dal punto di vista del linguaggio. Possono togliere a un uomo la libertà di stringere una mano, direi parafrasando il meraviglioso Viktor Frankl, ma non la libertà di parlare come gli pare. Che parole servono, dunque, in un mondo che ci costringe a parlare attraverso schermi di vetro, a mascherarci e a star lontani dagli altri? Parole che producano serotonina, endorfine, ossitocina, sostanze benefiche che contrastano gli effetti negativi di sostanze meno benefiche come cortisolo e norepinefrina. Tutto il vocabolario legato al mondo della natura, ad esempio, fa di certo al caso nostro: se io scrivo “erba verde”, voi pensate a “erba verde” e il cervello rilascia una piccola dose di ormoni del benessere, perché il verde dell’erba ha un potere rilassante che agisce sul nostro cervello senza nemmeno che noi ce ne rendiamo conto. Si chiama “innesco sul fresco”, che poi è quel che succede al supermercato, quando vi accolgono con ceste traboccanti di frutta e verdura e voi spendete di più e non sapete perché. Ricordate che il cervello non distingue fra linguaggio letterale e linguaggio figurato: perciò, se io scrivo che oggi dobbiamo piantare quei semi linguistici che daranno i loro frutti nel corso del tempo, voi leggete “piantare” e “semi” e “frutti” e il gioco è fatto: l’endorfina è garantita.
Lo stesso discorso vale per il vocabolario legato alla metafora del viaggio. Se io scrivo che in questo percorso affronteremo passo dopo passo tutte le tappe che vanno toccate per diventare esperti di intelligenza linguistica e mettere a frutto le cose che state imparando, voi leggete “percorso”; “passo dopo passo”, “tappe”, “mettere a frutto” e “toccate”, così che oltre a pensare al viaggio pensate anche a “contatto” e “natura”. Piuttosto semplice, se conoscete le regole del gioco. A frasi ispirate al vocabolario metaforico “natura” e “viaggio” aggiungete poi tutto quello che riguarda il contatto, la vicinanza, il caldo, tre grandi aree tematiche che hanno il potere linguistico di stemperare gli effetti deleteri di vetri, distanze e mascherine: vi sono vicino in questa fase del percorso, restiamo in contatto, vi porgo il mio caloroso benvenuto, prendiamo in mano la situazione, abbracciamo nuove idee, tocchiamo con mano la qualità di questo prodotto, uniamo le forze, scaldiamo gli animi e chi più ne ha più ne metta. L’idea è disseminare di queste parole qualsiasi terreno fertile: dai post social ai messaggi in chat, dalle nostre e-mail ai nostri siti Internet e, ovviamente, il nostro linguaggio.
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