Alessio Sakara
Devo molto al coraggio
Quando la paura mostra le zanne e ringhia nella notte, non c’è altro da fare che andarle incontro. Allora scopri una cosa interessante. La paura ha paura del tuo coraggio.
Tempo di lettura: 9 minuti
Il coraggio non è mancanza di paura ma la capacità di agire in sua presenza. Anche perché la paura non ha mai risparmiato nessuno, nemmeno i più tosti. Quando a diciassette anni feci il passaporto e partii per la Colombia allo scopo di affinarmi nella nobile arte del pugilato, feci ricorso a tutto il mio coraggio. Certo, avevo ben chiaro che volevo riscattarmi socialmente, migliorare la mia condizione economica, cambiare ambiente. Come ho detto, devo molto alla mia borgata e la considero una straordinaria base di partenza. Ma volevo spiccare il volo. Così lasciai tutto: la casa, la famiglia, gli amici. E anche Romina, la ragazza di cui ero innamorato.
Dopo la mia partenza, ovunque andassi, avevo la sua foto nel portafogli. Me la portavo sempre dietro, la guardavo con rimpianto e pensavo che, per quanto ci volessimo bene, alla fine la distanza ci avrebbe separati per sempre. E così fu. Le telefonate si diradarono, i sentimenti sbiadirono e la vita, come al suo solito, proseguì. A diciassette anni, una piccola parte di me si domandava se quella di partire fosse stata la scelta giusta. E tutto il resto del mio spirito gridava un grosso, mastodontico “Sì”. Quel coraggio ha fatto tutta la differenza. Se non lo avessi alimentato, se non avessi fatto in modo che prevalesse, adesso non sarei qui a scrivere questo libro. Dove sarei invece? Difficile dirlo, ma sono del parere che se oggi mi trovassi ancora lì, nel punto da cui sono partito… se non avessi vissuto ogni giorno come una battaglia superando tutte le mie paure, se non avessi fatto del coraggio il mio migliore alleato… be’, sono certo che avrei sprecato la mia vita. Viceversa, se morissi in questo preciso istante, me ne andrei sollevato dal pensiero di avere combattuto e vinto la mia guerra. Devo molto al coraggio. Che però va allenato, proprio come i muscoli, il cuore e i polmoni. Quando entro nella gabbia, i guanti sulle mani, i pugni stretti e l’adrenalina che scorre a tutto andare, la paura è sempre presente, all’inizio. Ma il coraggio sale sul ring con me. Questa coesistenza di paura e coraggio è in tutti i lottatori. Davanti a noi, quando il cancello della gabbia si chiude, c’è un energumeno il cui unico scopo è quello di dimostrare la sua superiorità. E non ci riuscirà facendo scacco matto o con il senso dell’umorismo, ma colpendoci e bloccandoci e facendo leva con i muscoli che ha allenato a questo scopo per anni.
Quel tizio ci vuole atterrare. Non di rado, i miei avversari hanno le loro cicatrici sul volto. Se le sono procurate combattendo miriadi di battaglie, prima di incrociare il mio cammino. Quelle cicatrici raccontano storie, comunicano direttamente con il mio sistema nervoso e dicono: stai molto attento, allarme rosso, il mio lavoro è farti male. Naturalmente, lo stesso monito vale per chi affronta il sottoscritto. Ma poi inizia il combattimento e ogni esitazione si dissolve. La paura se ne va, con me resta solo la voglia di vincere.
Genova, 1° dicembre 2018
Me la vedo con l’inglese Kent Kauppinen, l’arena è gremita, guanti rossi per me, guanti azzurri per Kauppinen. Il pubblico è quasi tutto dalla mia. Sono a casa, sono in paradiso, ossia fra le maglie della gabbia. Qui c’è tutto ciò che desidero, a cominciare da un avversario da combattere lealmente. A un minuto e dieci secondi dall’inizio del primo round vengo raggiunto da un gancio sinistro. Il ring si spalanca, le luci si spengono, è tutto sottosopra. Mi accascio e Kauppinen si accinge a colpire ancora mentre sono riverso al suolo. È un’opzione che le MMA non escludono affatto, si chiama: ground and pound. Un combattente è al tappeto e l’altro continua a colpirlo. Ed è esattamente quello che avviene. Una pioggia di cazzotti e sotto i cazzotti c’è la mia faccia. Riapro gli occhi. Mi chiedo quanto manchi all’inizio dell’incontro. Ma mi informano che il match è finito. Non ci posso credere.
Poche storie, i knock-out fanno parte della vita, ma quel giorno è stato diverso. Per la seconda volta soltanto in tutta la mia carriera tutti i sistemi si erano disattivati in un colpo solo. I “sanpietrini”, come io chiamo i pugni più pesanti, sono brutte bestie. Un ko brutale.
Ed eccomi qui a raccontarlo senza remore, per essere ancora una volta coerente con me stesso e chi mi segue. Infatti, visto che stiamo discutendo del coraggio, ammetterò che me ne serve una certa dose per espormi in questo modo, perché non fa piacere ripensare alle sconfitte. Però sarebbe da codardi nascondere la verità. Quindi proseguiamo con assoluta franchezza, visto che le sconfitte hanno molto da insegnare. Un Legionario impara anche quando cade. A patto che si rialzi. Questa è la teoria. Poi però succede qualcosa di strano, ed è qui che la storia si complica. Non siamo macchine.
Milano, novembre 2019
Negli spogliatoi dell’impianto i bassi sparati dal subwoofer vibrano in sottofondo fondendosi con il vociare del pubblico che gremisce gli spalti. Sto scaldando i muscoli, come sempre prima di un incontro. Venti minuti belli intensi, in sedute da cinque minuti circa, il sudore sulla pelle, i pugni che bersagliano i pao indossati dall’allenatore. Tonfi secchi e ripetuti, veloci e poi ancora figure e shadow boxing. Mi sento in forma, sciolto. Non vedo l’ora, sono pronto. Ma all’improvviso una vocina nella mia testa comincia a sibilare: E se adesso mi ricapita? Strizzo gli occhi, sferro un montante da una tonnellata. E se vado al tappeto come l’altra volta? Il cuore manca un colpo. Conan Silveira, il mio allenatore, mi scocca un’occhiata indagatrice da dietro i pao, una di quelle che stanno a significare: “Dove hai la testa?” Qui, rispondo tacitamente a lui e a me stesso. E giù di riscaldamento. Il momento si avvicina, l’adrenalina scorre alla grande, come piace a me… E se mi ricapita? Di nuovo la vocina. A quel punto il cuore accelera più di quanto vorrei. Un brivido mi risale la schiena come una tarantola, di quelle che ho visto in Brasile quando sono andato a combattere a Manaus per il Jungle Fight. Di colpo riconosco la sensazione. È più gelida del solito, più subdola. È la paura che prende per il collo. Era un po’ che io e lei non ci scontravamo così duramente. E dire che pensavo di averla debellata da un bel pezzo.
Lei digrigna i denti.
“Tutto bene, Alessio?”, mi chiede Conan accigliato. Annuisco senza fiatare. Sto avendo una conversazione con la paura e lei è un’ospite esigente, non ama dividermi con nessuno. Non importa quanta esperienza hai maturato, un giorno la paura potrebbe scovarti lo stesso. Con me lo ha fatto. E quel giorno ho dovuto ricordare a me stesso che ci sono due modi di sconfiggerla. La prima è la preparazione. La seconda è l’azione. Tutte e due allenano il coraggio. La preparazione è l’antidoto alla paura più grande: la paura dell’ignoto. A spaventarci è tutto ciò che non conosciamo, ciò che non abbiamo portato all’attenzione della nostra intelligenza. Se ti ritrovi tutto a un tratto catapultato nella gabbia dei leoni, è normale che ti comincino a tremare le gambe. Ma se hai studiato le tecniche di addestramento dei leoni per mesi, è tutta un’altra cosa. Lo stesso vale per il razzismo. Il razzismo è una forma di paura, non conosci l’altro e di conseguenza pensi di doverti difendere. Ma se conosci l’altro, se hai viaggiato, se hai visto il mondo o sei hai letto, ti sei informato… non c’è razzismo che tenga. Pippe mentali, è di questo che abbiamo paura veramente. Studiare ti rende coraggioso. Si può imparare dai libri e dall’esperienza diretta, ma è meglio non sottovalutare la preparazione teorica, sulle pagine scritte, perché da sempre i grandi uomini sono diventati tali confrontandosi con altri grandi uomini. Molti di essi continuano a parlarci attraverso i libri che hanno scritto prima che noi nascessimo. Dal momento che non sono fra noi fisicamente, non c’è altro modo di conoscerli. Io sarò sempre riconoscente a Giulio Cesare, Seneca, Marco Aurelio e tanti altri grandi pensatori dell’antichità. La filosofia stoica mi ispira ogni giorno. È la visione del mondo che rendeva più forti i legionari, che permetteva loro di superare ogni sfida a denti stretti. Le parole degli autori di duemila anni fa riecheggiano nella mia vita. I loro libri sono sempre con me. Leggo ogni giorno e così alleno il mio spirito e il mio pensiero al coraggio. Il secondo modo per allenare lo spirito indomito di un legionario è l’azione. Quando la paura mostra le zanne e ringhia nella notte, non c’è altro da fare che andarle incontro. Allora scopri una cosa interessante.
La paura ha paura del tuo coraggio. Infatti arretra, se ne va guardandoti con occhi rossi, folli di rancore. Sarò sincero, ho allenato così tanto il mio coraggio che c’è ben poco che mi spaventi. Non voglio apparire presuntuoso, ma è così. Ma di qualcosa ho paura anche io. Gli squali per esempio. Quando andavo al mare, non riuscivo a evitare di pensare a quel film, soprattutto al largo. Fu per questo che noleggiai una barca e mi feci portare lontano dalla riva. Per farmi passare la paura non c’era altro modo che tuffarmi e tornare sulla terra ferma a bracciate. E così feci. Per tutto il tempo, come avevo previsto, la mia fantasia continuava a giocarmi brutti scherzi. Squali e blu profondo, blu profondo e squali. Ma una volta giunto a riva, gli squali erano spariti e il blu profondo mi invitava a immergermi ancora. Oggi nuotare in alto mare è uno dei piaceri che mi regalo ogni volta che posso. Per uno come me, che ama la solitudine, nuotare al largo è bellissimo. Siamo solo io… e gli squali.
È il momento. Lasciamo lo spogliatoio, cammino fra due ali di spettatori che scandiscono il mio nome a gran voce, diretto alla gabbia. Un uomo apre il cancello, salgo gli scalini e sono dentro, l’arbitro sta in piedi a ridosso della rete con le braccia conserte; il cancello si chiude alle mie spalle, la musica rimbomba nell’aria piena di elettricità, guardo negli occhi il mio avversario e tutto svanisce. Siamo solo io e lui. E il coraggio. Attirato dalla preparazione e dalla volontà di agire, il coraggio è qui con me. Il mio consiglio è: prima preparati accuratamente, poi agisci. Teoria e pratica insieme sono la formula del coraggio. Ma il coraggio di fare che cosa? In primis di decidere. Decidere chi vuoi essere, che cosa vuoi ottenere, chi vuoi diventare. Ci vuole un grande coraggio per assumersi la responsabilità di decidere della propria vita. Ma l’alternativa qual è? Trascinarsi un giorno dopo l’altro in un’esistenza senza scopo in cui saranno gli altri a dirti chi sei e cosa puoi fare? Che cosa vuoi veramente? Io volevo combattere e lasciare le case popolari, volevo farmi strada. Quando scoprii di avere un talento che si esprimeva nel combattimento, misi da parte ogni esitazione e partii alla volta dei maestri che mi avrebbero aiutato a crescere. Per farmi capire improvvisavo un portoghese maccheronico, aggiungevo “ao” e “agi” alla fine di ogni parola, come se fosse sufficiente, e poi gesticolavo come solo noi italiani sappiamo fare. In qualche modo ne venivo fuori. Entravo nelle favelas, dove tutti mi consigliavano di non mettere piede, prendevo il bus senza essere certo che mi avrebbe portato alla destinazione prefissata e andavo avanti per la mia strada. Era solo coraggio? No, era anche l’incoscienza della giovinezza, ma del resto se non rischi quando sei giovane, quando dovresti farlo? Era bellissimo. Avevo il mio perché ed era grande.
Ecco la terza via di accesso al coraggio: avere un perché, e che sia importante. Allora sottoporsi a ogni sacrificio e ristrettezza in nome del tuo obiettivo sarà più facile, perché al centro dei pensieri che ti frullano in testa nei momenti duri non ci sarà la sofferenza che stai vivendo ma il piacere che proverai un giorno, raggiungendo il tuo obiettivo.
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