Manuela Nicolosi
Il coraggio di rompere gli schemi
La storia di una passione e della voglia di inseguire i propri sogni senza fermarsi davanti alle difficoltà
Tempo di lettura: 4 minuti
Avevo cinque anni quando entrai per la prima volta in uno stadio, a Roma. Stringevo forte la mano di mio papà mentre salivamo insieme gli alti scalini che mi costringevano ad alzare le ginocchia per raggiungere la tribuna, dove zio Giorgio ci aspettava con mio cugino. Gli spalti si stavano affollando di tifosi. Molti indossavano una maglietta dello stesso colore della sciarpa che in quel momento mio cugino mostrava fiero, tesa verso il campo. Zio Giorgio alzò il braccio per segnalarci la sua posizione e noi lo raggiungemmo facendoci strada fra la folla. Mio cugino Stefano, più grande di me, aveva una tale emozione che cominciava a contagiarmi. Papà e zio Giorgio confabulavano altrettanto eccitati. Non sapevo dare un nome a quello che provavo, ma era lì, un’onda che cresceva tutto intorno e dentro. Un’energia unica e contagiosa.
Guardai il campo in basso, le strisce bianche che lo delimitavano in una geometria che esprimeva semplicità e potere. Non avevo mai visto erba tanto verde, divisa in rettangoli e cerchi così perfetti.
Ma questo era niente a confronto di quello che avvenne quando la partita ebbe inizio. Non conoscevo le regole, non avevo idea di quanti particolari si nascondessero dietro ogni azione, ma sentivo che stava succedendo qualcosa di magico. Come potevano quegli omini che correvano avanti e indietro sul campo suscitare così tante emozioni? E mio padre... Anche lui infiammato da una passione e una vitalità incredibili. Lo guardavo attonita e notavo che quelle emozioni lo rendevano più bello, più forte. Quanta forza vitale nel modo in cui si agitava, gridava ed esultava! E non era il solo. Intorno a noi vedevo gente che piangeva, si arrabbiava, poi si abbracciava emettendo grida di gioia. Come ci riuscivano, che magia era mai questa?
Papà saltò in piedi all’unisono con centinaia di tifosi emettendo un urlo liberatorio. E lì dissi: “Voglio farlo anch’io.” Voglio suscitare le stesse emozioni nelle persone! Mio papà mi guardò un po’ perplesso, poi mi sorrise accarezzandomi il viso. “Ne riparliamo a casa.”
Le emozioni che accompagnarono quell’idea erano così ardenti che quel pensiero si impresse a fuoco da qualche parte dentro di me, influenzando tutta la mia vita. Perché non era solo un’idea, era una decisione. E basta una decisione a cambiarti la vita per sempre. Ancora non lo sapevo, ma lo avrei scoperto definitivamente in un futuro che allora non potevo nemmeno immaginare. Sono cresciuta in un contesto in cui bisognava fare sempre di più e meritarsi le cose. Me lo ripeteva sempre anche mia nonna paterna: “Ad maiora!”
Pur prendendo ottimi voti a scuola, non ricevevo apprezzamenti a casa. I miei guardavano le pagelle e dicevano: “Hai fatto il tuo dovere.” Nemmeno un semplice brava. È stato probabilmente per il bisogno della loro approvazione che dentro di me ha preso vita la convinzione che solo riuscendo ad essere la prima della classe e la più preparata in tutto avrei ottenuto un “Brava! Siamo fieri di te.” Mi sono impegnata al massimo negli studi e mi sono cimentata in più attività extra scolastiche possibili per dimostrare ai miei che quel brava lo meritavo. Lo sport mi è sempre piaciuto in tutte le sue forme e declinazioni: pattinaggio, nuoto, pallavolo, danza... Non stavo mai ferma. Mi buttavo a capofitto in ogni attività, animata dalla voglia di imparare. E mio papà mi incitava a intraprendere qualsiasi cosa mi potesse distrarre dall’idea di diventare una calciatrice. Ogni volta che mi vedeva con il pallone tra i piedi a palleggiare insieme a mio fratello, mi richiamava all’ordine: “Non è uno sport per te. Quante volte devo ripeterlo?”
Alle medie cominciai a dedicarmi anche alla musica, studiando pianoforte e chitarra. Un giorno decisi che volevo cantare nel coro della scuola con cui avrei partecipato anche a competizioni nazionali. Mi piacevano le sensazioni che provavo quando eravamo in gara. In particolar modo, amavo la scarica di adrenalina che riempiva il mio corpo quando vincevo. “Sei stonata come una campana. Lascia perdere. Trovati un’altra attività” mi disse il professore di musica, con mia mamma presente, quando mi sentì cantare. In effetti lo ero. Ma perché il maestro di canto, invece di spronarmi a fare meglio, aveva solo cercato di farmi sentire inadatta? Mi misi di impegno tutti i pomeriggi dopo scuola fino a quando smisi di stonare e ottenni di entrare nel coro. Ero riuscita a realizzare un obiettivo che mi ero data. Ne ero davvero contenta!
Quel provare e riprovare mi ha insegnato una cosa importante su me stessa: amo sfidare le mie capacità. Cerco di uscire dalla mia zona di comfort il più spesso possibile. Quando trovo qualcosa che non riesco a fare facilmente, più è difficile da imparare e maggiore è la forza con cui decido di riuscirci.
Ogni volta che da bambina riuscivo bene nelle attività in cui gli altri pensavano che sarei stata scarsa, mi sentivo felice. Così ho cominciato a ricercare quella felicità sempre di più.
Più vinci e più hai voglia di vincere: è provato scientificamente. Si chiama “effetto del vincitore” quella combinazione di reazioni chimiche che viene attivata dal nostro cervello quando riceviamo una ricompensa gratificante. A livello fisico si traduce in una scarica di dopamina, che produce una sensazione di appagamento e benessere, una gratificazione che ci fa sentire felici. È il caso degli atleti quando saltano e urlano di gioia dopo una vittoria? Il loro picco di dopamina in quel momento è altissimo. Questo ormone ci rende più desiderosi di provare nuovamente le stesse belle emozioni, che otterremo conquistando un’altra vittoria.
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