Nel corso degli anni successivi, ho iniziato a prefissarmi, come faccio oggi, di captare il linguaggio del corpo del pubblico. Le espressioni assenti significano che sto andando troppo veloce e devo rallentare. Le braccia incrociate indicano un atteggiamento difensivo o risentimento. Quanto a me, so che gesticolare o aggiustarmi troppo i capelli segnala la mia mancanza di sicurezza. Ciò mi ricollega a qualche anno fa, quando cominciai a sentir raccontare una storia dopo l'altra, tutte incentrate sul medesimo tema: i problemi di comunicazione nell'ambiente di lavoro.
Come dicevo poc’anzi, ho tenuto interventi e fornito consulenze a clienti in tutto il mondo, insegnando alle persone come collaborare meglio al lavoro. Le domande più comuni che mi sono state poste erano: come possiamo innovare in misura maggiore e farlo più velocemente capitalizzando sulla competenza dei dipendenti che padroneggiano il digitale, pur facendo leva su una forza lavoro esperta che rimane ancorata alle proprie modalità? E come possiamo convincere quei due gruppi a collaborare veramente l’uno con l’altro? Sempre più clienti e membri del pubblico di tutte le età esternavano alti gradi di paura, ansia e paranoia riguardo alla comunicazione nel proprio contesto lavorativo. I leader stavano facendo ciò che avevano sempre fatto – per esempio, condividere messaggi di sostegno e fiducia con i loro colleghi e team – eppure un numero crescente di quei messaggi veniva frainteso, mal interpretato o mancava del tutto il bersaglio. Quei leader non erano stupidi né privi di capacità relazionali, e molti avevano una buona conoscenza dei metodi più all’avanguardia per costruire culture aziendali forti.
Scavando più a fondo nelle sollecitazioni che ricevevo, le maggiori lamentele sembravano riguardare il modo in cui le comunicazioni venivano tradotte all’interno di quegli stessi ambienti di lavoro. Ovverossia, come un messaggio che intendeva essere amichevole e diretto poteva essere letto dal destinatario come irritato o risentito, causando un coinvolgimento inferiore e una minore innovazione, e addirittura la perdita dei dipendenti con le migliori prestazioni.
Una tale criticità mi venne illustrata durante una riunione che ebbi con una cliente che chiamerò Kelsey, dirigente senior della società farmaceutica Johnson & Johnson, la quale aveva ricevuto dal suo team un feedback ostico sui problemi attinenti il morale. Nella revisione delle prestazioni di Kelsey, il capo aveva commentato che “il suo livello di empatia era scarso”. Quando Kelsey e io ci incontrammo per la prima volta e iniziammo a parlare, tenni d’occhio gli universali indicatori standard di empatia mediocre: incapacità di comprendere i bisogni degli altri, carenza di abilità nell’interpretare e usare il linguaggio del corpo, limitate capacità di ascolto, inabilità a porre domande approfondite. Ero confusa. Kelsey sembrava avere fantastiche capacità di empatia. Mi faceva
sentire a mio agio, il suo linguaggio del corpo segnalava rispetto e comprensione, e ascoltava con intensità e attenzione. Cosa stava succedendo?
La risposta aveva meno a che fare con Kelsey e più a che fare con l’odierno contesto lavorativo che fa affidamento sulla tecnologia. Anziché mancare di empatia, Kelsey, come quasi tutte le persone a cui ho fatto da coach, non sapeva più cosa significasse l’empatia in un mondo in cui la comunicazione digitale aveva reso pressoché inintelligibili segnali, indizi e norme che un tempo erano chiari. Il tono di voce? Il cordiale linguaggio del corpo? Quelle cose non contavano più. Il mondo digitale richiedeva un nuovo tipo di linguaggio del corpo. Il problema era che nessuno riusciva a essere d’accordo neppure su ciò che costituiva quel tipo di linguaggio del corpo.
Per esempio, Kelsey credeva di fare un favore a tutti attenendosi a email stringate. Però il suo team le trovava fredde e ambigue. Lei inoltrava gli inviti in calendario all’ultimo minuto senza spiegazioni, facendo sentire ai colleghi del team che mancava loro di rispetto, come se l’agenda di Kelsey fosse più importante della loro. Durante le presentazioni strategiche, Kelsey abbassava ripetutamente lo sguardo sul cellulare, facendo sentire gli altri come se avesse disertato. Il digital body language di Kelsey, quindi, era terribile. Neutralizzava la chiarezza molto concreta che emerge quando nell’ambiente di lavoro i colleghi (d’accordo, gli esseri umani in generale) si sentono in connessione l’uno con l’altro mediante il linguaggio fisico del corpo.
Mi resi conto che la nostra comprensione del linguaggio del corpo aveva bisogno di essere ridefinita per il contesto lavorativo contemporaneo. Nell’epoca attuale, siamo tutti “immigrati” che imparano una cultura e una lingua nuove, tranne che stavolta si tratta di quelle dello spazio digitale. Essere un buon leader oggigiorno non significa solamente essere consapevoli degli indizi e dei segnali delle altre persone, ma anche padroneggiare questo nuovo digital body language che non esisteva vent’anni fa e che è un linguaggio che la maggioranza delle persone adesso “parla” male quanto io parlavo male l’hindi da bambina!