“A casa è una guerra” è una delle espressioni tipiche che indicano tensioni e litigi familiari. Anche in azienda, la frequenza con cui si usano e si sentono usare frasi di questo tipo è altissima. Solo che le parole, come diceva Nanni Moretti nel film Palombella rossa, sono importanti. Determinanti. Già plasmati da un’avversione, parzialmente giusta, nei confronti dell’idea di guerra, se usiamo le parole in modo improprio ci ritroviamo ancor di più a evitare gli scontri, i litigi, i conflitti, senza che questo ci sia di aiuto. Anzi.
La guerra è violenza, per quanto organizzata. Litigare, invece, è quasi sempre un qualche tipo di scontro alla ricerca di un punto comune. La guerra è un gioco a somma zero: qualcuno vince, qualcun altro perde. Litigare è manifestazione, a volte accesa, di opinioni, di espressione. È spiegarsi meglio, ad alta voce. In Italia, purtroppo, la lingua non ci aiuta a destreggiarci con queste sfumature. Come ha osservato Daniele Novara, presidente del Centro psicopedagogico per l’educazione e la gestione dei conflitti e mio mentore sulla materia, in italiano, sul tema, usiamo troppe parole in maniera confusa e sovrapposta:
"Appare evidente come nei nostri vocabolari i significati di 'guerra' e 'conflitto' siano sostanzialmente sovrapponibili, con un’accezione quasi peggiorativa del conflitto rispetto alla guerra. Ma se consideriamo la guerra per quello che è, e cioè una delle forme più estreme di violenza, è evidente che ci troviamo di fronte a una clamorosa confusione semantica, che la ricerca sui nostri vocabolari non ci aiuta a dirimere."
Sovrapposta, nel senso che pensiamo che in una scala di intensità della violenza vi siano i conflitti e crescendo si possa trovare la guerra. Dal conflitto, al litigio, fino ad arrivare al caos. Ciò che più ci manca, però, e non solo in Italia, è la capacità di cogliere le sfumature e anche l’ambiguità della natura umana e delle relazioni. Come generazione “pacifica” che ripudia la guerra, la nostra tendenza è quella di escludere ogni possibile scontro. Pensare che l’armonia sia una questione di accordo perenne, continuo, simbiotico. E, invece, non funziona così. Anzi, funziona al contrario.
L’armonia è un processo tormentato di mediazione, negoziazione, confronto, discussioni. Si tratta del risultato del capirsi, il che implica necessariamente qualche volta aver litigato. A volte è vero: tali litigi possono apparire o risultare violenti. Ma si tratta, per lo più, di incapacità nell’affrontare la natura dei conflitti. La violenza insomma – citando ancora Novara – “non può essere una sorta di conseguenza del conflitto ma, al contrario, è l’incapacità di stare nel conflitto stesso, di sperimentarlo come momento importante, come elemento che fonda la relazione e attraverso il quale è possibile riconoscere la differenza e la distanza, indispensabili a preservare la relazione stessa dalle sue componenti inglobanti e tiranniche”.
Conflitti in azienda: il meglio o il peggio di noi?
Progredendo in un campo a noi più familiare, quello della vita in azienda, potremmo adattare la domanda di prima, relativa alla guerra, ai conflitti sul luogo di lavoro: fanno emergere il peggio o il meglio di noi? Sono una guerra o sono altro? Queste domande sono vitali per le finalità di questo libro e per il destino delle nostre imprese. E, anche qui, la risposta dipende dalle credenze e dai
pregiudizi di cui siamo dotati. Se crediamo che i conflitti siano portatori di guerra e caos, è chiaro che ne fuggiremo sempre e, come manager, cercheremo in ogni modo di evitarli. Se invece – e questa è la tesi del libro – li intendiamo come momento di crescita e ricerca dell’armonia, allora ci sforzeremo non di evitarli, ma di affrontarli con saggezza, pazienza e metodo. Non solo per imparare a gestirli, ma anche per includerli tra i processi fondamentali per una sana vita aziendale. “So-stare nel conflitto”, come suggerisce lo stesso Novara, anziché vivere e lavorare in una finta armonia che, lasciando macerare il problema, dà poi luogo a “infezioni”, più o meno gravi, che si estendono a tutta l’organizzazione.
Il conflitto incoraggia nuovi approcci e modi di pensare, fa sorgere domande nuove.
Il conflitto fornisce delle opportunità di ripensamento e riorganizzazione.
Il conflitto fornisce materiale e humus adatto all’innovazione, in ogni senso possibile. Infine il conflitto è propedeutico al cambiamento di comportamenti, processi e prodotti che comunque sono una costante necessaria per rimanere sul mercato, molto di più di quanto non lo sia una pace rigida, che costringe a una difesa intransigente dello status quo. “Il conflitto è semplicemente l’energia creata dal divario tra ciò che vogliamo e ciò che stiamo vivendo – afferma Nate Regier, psicologo clinico e autore di Conflict Without Casualties – e, se definiamo il conflitto come energia creata dal divario, allora la vera domanda è ‘Come useremo quell’energia?’”
Nessun conflitto, nessuna efficacia
Lo psicologo Bruce Tuckman ha coniato una sequenza memorabile, utile a descrivere le dinamiche del lavoro in team, ma anche e soprattutto a inquadrare e gestire i naturali conflitti che, inevitabilmente, tenderanno a manifestarsi. In un celebre articolo del 1965, “Developmental Sequence in Small Groups”, scrisse: “forming, storming, norming and performing”. Sono le quattro fasi che caratterizzano il processo di scoperta e di crescita di ogni team ed è facile comprendere come non vi possa essere crescita (performing), senza momenti tempestosi (storming) di conflitto. Secondo Tuckman, sebbene ogni organizzazione sia diversa, queste
fasi si possono riscontrare puntualmente.
Forming: Nel primo stadio, le persone si incontrano e cercano di ottenere informazioni su quelli che saranno i loro compiti, ma anche su coloro con cui lavoreranno. È una fase cruciale, ma anche molto serena in cui le persone in genere sono più pazienti nei confronti del prossimo e cercano di evitare ogni possibile attrito. Questa fase è anche definita di “orientamento”.
Storming: La seconda fase è senz’altro la più critica e anche la più interessante per il nostro discorso. Superato il primo periodo di orientamento, i soggetti iniziano a essere meno pazienti, a notare e fare notare ogni possibile punto di disaccordo e iniziano a testare reciprocamente potere e ruolo all’interno del team – un po’ come potrebbe avvenire in un branco in cui si cerca di stabilire le gerarchie. La “tempesta”, il livello di intensità dello scontro, varia da organizzazione a organizzazione ed è chiaramente determinata dal carattere e dal carico conflittuale di ogni componente del team. Alcuni team tendono a scontrarsi in maniera continua e persino violenta, altri potrebbero limitarsi a piccoli scontri o a evitarli. Ciò che è interessante e utile da ricordare, però, è che in questa fase si determina la fortuna o meno del team. Conflitti accesi potrebbero rallentare in un primo momento le performance e creare situazioni difficili da gestire, ma ancora peggiore è il caso in cui le tensioni covano silenziose e diventano o una zavorra da cui è difficile liberarsi o una bomba a orologeria, pronta a esplodere in ogni momento.
Norming: La terza fase è quella della “normalizzazione”. I componenti del team hanno imparato a conoscersi meglio e i conflitti hanno fatto emergere, nel bene o nel male, pregi e difetti di ognuno. Proprio come succede in una coppia che ha affrontato e condiviso un momento difficile, in questa fase iniziano a emergere complicità e intimità. Non significa di certo che tutto sia stato risolto, ma dopo la tempesta le persone hanno raggiunto un tacito accordo, un punto di incontro in cui vengono tollerati reciproci difetti. Il pericolo è, tuttavia, dietro l’angolo: avere superato un conflitto e raggiunto l’intimità potrebbe far sì che molti inizino a evitare di esprimere le proprie idee. Il motivo? Schivare nuovi conflitti, mossi dalla percezione che significherebbe fare un passo indietro e
rompere l’armonia appena conquistata.
Performing: Questa è la fase di maturità dei team. Qui, appianati i conflitti e stabilite le gerarchie, il gruppo si concentra sugli obiettivi comuni. È la fase in cui le persone “fanno squadra” e si cerca di mettere il proprio ego e narcisismo a tacere, in vista di un risultato comune e più grande. È un momento magico, ma non perenne, sempre messo a rischio da possibili nuove tensioni e dalla possibilità di fare uno o più passi indietro.