Steven Kotler
L'algoritmo per compiere l'impossibile
"L'impossibile aveva sempre una formula e - ecco la cosa bizzarra - se mi impegnavo, talvolta riuscivo a scoprirla"
Tempo di lettura: 5 minuti
La prima volta che ho assistito all’impossibile avevo nove anni. Era il 1976, l’anno della Coppa del Bicentenario, e a compiere l’impossibile è stato il mio fratellino. Lui aveva sette anni. Era pomeriggio inoltrato. Mio fratello era rientrato a casa dopo essere stato da un amico, aveva salutato la mamma e aveva estratto dalla tasca dei jeans sporchi di fango una palla di spugna di un colore rosso vivido. Misurava circa 3 centimetri di diametro ed era del colore del camion dei pompieri. Con le dita della mano destra, con calma, ha messo la palla nella mano sinistra che poi ha chiuso a pugno e sollevato verso il soffitto. Quindi ha chiesto a qualcuno – forse a me, forse alla mamma – di soffiare sul pugno chiuso. Mamma ha soffiato. E quando mio fratello ha aperto le dita, sono rimasto senza parole. La palla non c’era più. Intendo, puf! Scomparsa. Mio fratello – ne ero convinto – aveva compiuto l’impossibile.
Adesso, ovviamente, per molti, una palla di spugna che scompare non è poi un gran trucco. Però avevo nove anni e non avevo mai visto un gioco di prestidigitazione prima d’allora. Era proprio un’esperienza stupefacente. Ed era stupefacente da due punti di vista. Il primo e più ovvio: quella dannata pallina era scomparsa. Il secondo e un po’ meno ovvio: il mio fratellino non era magico. Di questo ero certo. Nei nostri sette anni di vita in comune, non aveva mai fatto nulla che sfidasse le leggi della fisica. Non si era mai messo a levitare accidentalmente e nessuno, quando la tazza da caffè preferita di papà non si trovava, l’aveva accusato di averla teletrasportata in altre dimensioni. Così, se mio fratello aveva realizzato l’impossibile e non era magico, ci doveva essere una spiegazione. Forse un insieme di competenze. Forse un metodo. È stata un’intuizione stupefacente. Intendo dire, che l’impossibile avesse una formula. E più di ogni altra cosa che avessi mai desiderato, volevo conoscere quella formula. Questo spiega molto di quanto è accaduto in seguito…
Ho cominciato a studiare prestidigitazione. Trucchi con le carte, con le monete e persino con quelle dannate palle di spugna. All’età di undici anni vivevo praticamente da Pandora Box, il negozio di magia locale. E in quel negozio ho scoperto molte cose impossibili. Negli anni Settanta il mondo della magia era nel pieno splendore. I maghi più esperti facevano spesso tour e, per ragioni che travalicano la mia comprensione, si fermavano spesso a Cleveland, nell’Ohio, dove accadeva tutto questo. Era una fortuna sfacciata. Intendo dire riuscire a incontrare, prima o poi, ogni persona che fosse qualcuno in quel mondo. Così ho potuto vedere l’impossibile, da vicino e parecchie volte. La lezione più importante di quegli anni è stata che, per quanto un trucco sembrasse incredibilmente improbabile agli spettatori che erano seduti di fronte al palco, c’era sempre una logica comprensibile dietro. L’impossibile aveva sempre una formula e – ecco la parte più bizzarra – se mi impegnavo, talvolta riuscivo a scoprirla. Come amava dire uno dei miei primi mentori nel mondo della magia: “Sono pochissime le cose impossibili per chi pratica da dieci anni.”
Lo stesso mentore amava sottolineare che la storia è disseminata di impossibile. Tante cose che in passato sono state ritenute impossibili oggi sono pienamente realizzabili. Il volo umano è un sogno antico. Abbiamo impiegato cinquemila anni per progredire dai primi disegni nelle grotte che raffiguravano un uomo alato ai fratelli Wright che, con il primo volo del Kitty Hawk, sono entrati nei libri dei record – però, non ci siamo fermati qui. In seguito, è stata la volta di un volo transatlantico, poi di un volo spaziale, quindi di un allunaggio. In ogni caso l’impossibile è apparso possibile perché qualcuno ha individuato la formula. “Certo” ha detto il mio mentore “se non si conosce la formula, sembra magia. Ma adesso hai le idee più chiare.”
In un modo o nell’altro, queste idee non mi hanno più abbandonato. Quindi, quando gli atleti degli sport d’azione hanno cominciato a compiere abitualmente imprese impossibili, ho pensato che ci fosse una formula. E anche che la formula potesse essere appresa. Ovviamente ho pagato quest’idea con ossa rotte e parcelle ospedaliere. In effetti, molto prima che capissi come questi atleti riuscivano a raggiungere l’impossibile, sono arrivato alla saggia conclusione che, se non avessi smesso di inseguirli mentre cercavano di realizzare l’impossibile, non sarei vissuto a lungo. Così ho trasferito la mia ossessione per questa domanda in altri ambiti. Nelle arti, nelle scienze, nella tecnologia, nella cultura, negli affari – praticamente, in ogni area immaginabile – sono andato a caccia della formula. Cosa occorre perché individui, aziende e persino istituzioni possano elevare i propri standard? Che cosa è necessario per realizzare innovazioni che costituiscono un cambiamento paradigmatico? E, in una frase, se riusciamo a superare l'enfasi e portare alla luce gli aspetti pratici, che cosa occorre per compiere l'impossibile?
Le risposte cui sono giunto sono state il contenuto della maggior parte dei miei libri. Tomorrowland è il risultato di una ricerca ventennale sugli innovatori anticonformisti che hanno trasformato idee fantascientifiche in tecnologia scientifica, quelli che hanno realizzato l’impossibile supremo: hanno sognato il futuro. In Bold ho analizzato le figure di alcuni imprenditori emergenti come Elon Musk, Larry Page, Jeff Bezos e Richard Branson, persone che hanno creato imperi imprenditoriali impossibili in tempi quasi da record e spesso in ambiti in cui nessuno credeva che fosse possibile avviare un’impresa. Abbondanza parlava di individui e piccoli gruppi che hanno affrontato e risolto sfide globali impossibili come la povertà, la fame e la mancanza d’acqua, sfide tanto grandi che solo un decennio prima erano di pertinenza unicamente di grandi aziende e importanti governi. E così via.
Che cosa ho imparato da tutte queste ricerche? La stessa lezione che avevo appreso quando praticavo la magia. Ogni volta che l’impossibile diventa possibile, c’è sempre una formula. Ancora una volta, le definizioni sono utili. Utilizzo il termine formula proprio nel senso in cui gli scienziati informatici parlano di algoritmi: una sequenza di passi che chiunque può seguire per ottenere risultati coerenti. E anche se il resto del libro è dedicato ai dettagli di questa formula, ci sono ancora un paio di domande fondamentali cui vale la pena di rispondere con chiarezza. Prima di tutto è importante domandarci perché esista una formula per l'impossibile. La risposta è nella biologia.
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