Avrei trascorso la giornata con uno dei massimi dirigenti del gruppo automobilistico PSA Peugeot Citroën, preparando lui e sua moglie per gli assestamenti culturali che dovevano affrontare nel loro prossimo trasferimento a Wuhan, in Cina. Se il programma avesse avuto successo, più avanti nel corso dell’anno, la mia azienda sarebbe stata ingaggiata per fornire lo stesso servizio ad altre
cinquanta coppie, perciò la posta in gioco era alta. Anche Bo Chen, l’esperto culturale cinese che mi avrebbe coadiuvato nella sessione di formazione, arrivò in anticipo. Chen, giornalista trentaseienne di Wuhan residente a Parigi, lavorava per un quotidiano cinese. Si era offerto volontario per fungere da specialista della cultura cinese per la formazione e il suo contributo sarebbe stato uno degli elementi più decisivi per rendere proficua la giornata.
Se era bravo come speravo, il programma sarebbe stato un successo e ci saremmo aggiudicati la conduzione delle cinquanta sessioni a seguire. La mia fiducia in Chen era supportata dalle nostre riunioni preparatorie. Eloquente, estroverso e molto ben informato, Chen sembrava perfetto per il lavoro. Gli avevo richiesto di preparare due o tre esempi aziendali concreti per illustrare ogni aspetto culturale che intendevo trattare nel corso del programma, e lui aveva confermato con entusiasmo che sarebbe stato pronto. Il signore e la signora Bernard arrivarono e li feci accomodare su un lato del grande tavolo rettangolare in vetro, con Chen seduto di fronte a loro. Facendo un respiro profondo e pieno di speranza, diedi avvio alla sessione, delineando su una lavagna a fogli mobili gli aspetti culturali che i Bernard avevano bisogno di comprendere per far sì che il loro periodo in Cina sortisse un esito propizio.
Intanto che la mattinata proseguiva, spiegai ogni aspetto delle questioni chiave, risposi alle domande dei Bernard e tenni d’occhio con attenzione Chen così da poter collaborare facilitandone il contributo. Chen, però, non sembrava avere alcun input. Dopo aver terminato di analizzare il primo aspetto, feci una breve pausa e lo guardai in attesa del suo apporto, ma lui non parlò. Non aprì bocca, non mosse il corpo in avanti né alzò la mano. Apparentemente non aveva alcun esempio da fornire. Non volendo mettere a disagio Chen o creare una situazione spiacevole interpellandolo quando non era pronto, semplicemente procedetti a trattare il punto successivo. Con mio crescente sgomento, Chen rimase in silenzio e pressoché immobile mentre passavo in rassegna il resto della mia presentazione. Lui annuiva educatamente intanto che io parlavo, ma questo era quanto; non usò nessun altro linguaggio del corpo per indicare eventuali reazioni, positive o negative.
Fornii tutti gli esempi a cui riuscivo a pensare e mi impegnai nel dialogo con il cliente come meglio potevo. Aspetto dopo aspetto, argomentai, condivisi e consultai i Bernard – e aspetto dopo aspetto, non ci fu alcun input da parte di Chen. Proseguii per tre ore intere. La mia delusione iniziale nei confronti di Chen stava tracimando in panico totale. Avevo bisogno del suo contributo affinché il programma avesse successo. Alla fine, benché non volessi creare un momento di imbarazzo davanti al cliente, decisi di cogliere un’occasione. Chiesi: “Bo, hai degli esempi che vorresti condividere?” Chen si sistemò sulla sedia con la schiena dritta, sorrise
fiducioso ai clienti e aprì il suo computer portatile che era stracolmo di pagine e pagine di appunti digitati. “Grazie, Erin” replicò. “Sì, ho alcuni esempi.” E poi, con mio assoluto sollievo, Chen iniziò a illustrare un esempio dopo l’altro, tutti chiari, pertinenti, coinvolgenti.
Riflettendo sull’episodio della mia imbarazzante interazione con “Bo, muto come un pesce”, è naturale presumere che qualcosa nella personalità di Chen, nella mia personalità oppure nello scambio tra di noi potesse aver portato a quella situazione tesa. Forse Chen stava in silenzio perché non era un buon comunicatore o perché era timido oppure introverso, e non si sentiva a suo agio nell’esprimersi finché non veniva spinto a farlo. O forse io ero una facilitatrice incompetente che chiedeva a Chen di prepararsi per la riunione e poi non lo interpellava fino a quando la sessione non era quasi conclusa. O magari, più caritatevolmente, ero solo così stanca per il fatto di aver sognato per tutta la notte di smarrire la frutta acquistata che mi perdevo i segnali visivi che Chen mi inviava per indicare di avere qualcosa da dire. In effetti, i miei precedenti incontri con Chen mi avevano reso lampante che lui non era né privo di eloquenza né timido; in realtà, era un comunicatore dotato e anche entusiasticamente estroverso e sicuro di sé.
Per di più, io conducevo riunioni con i clienti da anni e non avevo mai sperimentato una disconnessione del genere, il che suggeriva che le mie capacità come facilitatrice non erano la fonte del problema. La verità è che la storia di “Bo, muto come un pesce” è una questione culturale, non di personalità. E tuttavia, la spiegazione culturale non è semplice come potreste pensare. Il comportamento di Chen nella riunione descritta è in linea con un familiare stereotipo culturale. Gli occidentali sovente presumono che, in generale, gli asiatici siano silenziosi, riservati o timidi. Se gestite un team globale che include sia asiatici sia occidentali, è assai probabile che abbiate sentito il luogo comune tipico del mondo occidentale che, nelle riunioni di gruppo, i partecipanti asiatici non parlano molto e sono meno espliciti nell’offrire le loro opinioni individuali.
Eppure lo stereotipo culturale non riflette la vera ragione del comportamento di Chen. Poiché i Bernard, Chen e io partecipavamo a un programma di formazione interculturale (che si supponeva io avrei dovuto guidare – sebbene a quel punto mi trovassi, con disagio, nel ruolo di allieva), decisi di chiedere apertamente a Chen una spiegazione riguardo alle sue azioni. “Bo, avevi tutti quegli ottimi esempi! Perché non sei intervenuto prima e non li hai condivisi con noi?” esclamai. “Ti aspettavi che intervenissi?” domandò lui, con uno sguardo di genuina sorpresa sul volto. Seguitò descrivendo la situazione dal suo punto di vista. Rivolgendosi ai Bernard, disse: “In questa sala, Erin è la persona che presiede la riunione.” Continuò: Poiché lei è la persona di grado più elevato nella riunione, aspetto che si rivolga a me. E, mentre aspetto, devo dimostrare di essere un buon ascoltatore mantenendo la mia voce e il mio corpo quieti. In Cina, pensiamo di frequente che gli occidentali esprimano talmente tanto le proprie opinioni nel corso delle riunioni che lo facciano per mettersi in mostra oppure perché sono ascoltatori mediocri. Inoltre, ho notato che, rispetto a quanto accade in Occidente, i cinesi lasciano passare qualche secondo in più di silenzio prima di prendere la parola.
Voi occidentali praticamente parlate uno sull’altro durante una riunione. Ho continuato ad aspettare che Erin si fermasse abbastanza a lungo da permettermi di intervenire, ma il mio turno non arrivava mai. Spesso noi cinesi pensiamo che gli americani non siano buoni ascoltatori perché si interrompono sempre a vicenda per esprimere i propri pareri. Mi sarebbe piaciuto evidenziare uno dei miei punti, qualora l’appropriata durata della pausa si fosse presentata. Ma Erin proseguiva a ragionare, pertanto mi sono limitato a continuare ad attendere pazientemente. Mia madre ha lasciato profondamente radicato in me il seguente concetto: “Hai due occhi, due orecchie, ma una bocca sola. Dovresti usarli di conseguenza.” Intanto che Chen parlava, le basi culturali della nostra incomprensione divennero nitidamente evidenti ai Bernard – e a me. Era ovvio che esse andassero ben oltre qualsiasi superficiale stereotipo a proposito dei “cinesi timidi”. E tale nuova comprensione ci porta alla domanda più rilevante di tutte: una volta che sono consapevole del contesto culturale che informa una situazione, quali misure posso adottare per essere più efficace nell’affrontarla?