Micheal Easter
33 giorni
Un viaggio al limite per riconnetterci con il nostro lato primitivo
Tempo di lettura: 4 minuti
Sono in piedi su una pista di decollo sferzata dal vento, a Kotzebue, in Alaska; il villaggio, tremila abitanti circa, si trova trenta chilometri a nord del circolo polare artico e si affaccia sul mare di Ciukci. Davanti a me ci sono due aeroplani. Uno mi scaricherà presto nelle profondità dell’Alaska artico, una regione generalmente considerata come una delle più desolate, remote e ostili della Terra. Sono al limite. L’imminente viaggio nell’Artico sarebbe già sufficiente, ma in più non mi piace volare. Specialmente quando si tratta di farlo con aerei del genere: velivoli monomotore, con due o quattro posti. Immaginate delle lattine di zuppa Campbell’s vuote con le ali.
Donnie Vincent percepisce il mio nervosismo. È un cacciatore dell’entroterra, che usa l’arco, e anche un regista di documentari, quantomeno in questa spedizione insieme a me. Si avvicina da dietro, arriva alle mie spalle e parla con voce bassa. “La maggior parte dei piloti, quassù, sono cowboy, uomini di montagna, che bevono whisky. Quel genere di ragazzi che non pensano due volte a farsi coinvolgere in una rissa al bar”, mi dice, sovrastando appena il rumore prodotto dalle gelide raffiche di vento. “Ma voglio che tu lo sappia, ho ingaggiato il miglior pilota in circolazione. Brian è un Top Gun.” Annuisco e lo ringrazio.
“Non ti sto dicendo che non ci schianteremo, né che non moriremo”, continua Donnie. “Il rischio è reale, ok? Ma questo tizio è bravo. Quindi, le probabilità che ci capiti di trovarci coinvolti in un incidente aereo sono…” Il mio nervosismo si amplifica, si trasforma in terrore esistenziale, e lo interrompo. “Va bene”, dico. “Ho capito.” I voli commerciali sono incredibilmente sicuri. Le statistiche dicono che è infinitamente più probabile che vi capiti di morire in un incidente stradale mentre state andando all’aeroporto, piuttosto che in aereo. Ma questa regola non si applica ai voli in Alaska. Circa cento di questi voli ogni anno si concludono in fuoco, fiamme, e in un cumulo di rottami; la Federal Aviation Administration (faa) ha recentemente diffuso un “avvertimento senza precedenti” ai piloti degli aerei che volano sopra i boschi dell’Alaska, in seguito a un importante incremento degli incidenti. In altri termini, quest’anno si è rivelato particolarmente negativo. Il maltempo, la fitta nebbia e il fumo prodotto dagli incendi hanno compromesso frequentemente la visibilità [...].
Una volta che Brian ci farà atterrare nell’entroterra, dovremo affrontare ancora più pericoli: grizzly furiosi, alci da oltre 650 chili, branchi di lupi affamati, ghiottoni dallo sguardo selvaggio, tassi assetati di sangue, fiumi impetuosi o ghiacciati, violente tempeste caratterizzate dal fenomeno del whiteout, temperature ampiamente sottozero, venti degni di un uragano, rupi scoscese, patologie che possono rivelarsi fatali, come la tularemia e le infezioni da hantavirus, nugoli di zanzare, ratti e topi, diarrea, vomito, emorragie…Se ci sono milioni di modi per morire nell’Occidente civilizzato, ce ne sono il doppio nell’entroterra artico dell’Alaska.
Qual è la nostra unica via d’uscita? Continuare a camminare, per centinaia di chilometri, in quell’ambiente ostile, finché Brian non verrà a prenderci, dopo 33 giorni. Nel corso del nostro vagare, andremo alla ricerca di un leggendario branco di caribù, un esercito migrante di fantasmi, ognuno dei quali pesa 200 chili, che vagano silenziosamente nella tundra artica, con i loro palchi nodosi, lunghi più di un metro, che emergono nella nebbia ghiacciata, per poi scomparire quando il vento cambia [...].
Una gran quantità di studi, radicalmente nuovi, mostra che le persone danno il meglio di sé – sono fisicamente più resistenti, mentalmente più forti e spiritualmente più solide – dopo aver sperimentato gli stessi disagi a cui erano esposti ogni giorno i nostri primi antenati. Gli scienziati stanno mostrando che alcune di tali difficoltà ci proteggono da problemi somatici e psicologici, come l’obesità, le malattie cardiovascolari, i tumori, il diabete, la depressione, l’ansia, e anche da questioni ben più fondamentali, come la percezione dell’incapacità di trovare dei significati e degli scopi nella vita. Ci sono molti modi, diciamo “meno impegnativi”, per accedere ai benefit garantiti da un certo genere di disagio. Tante opportunità che una persona potrebbe facilmente cogliere, nella propria vita quotidiana, per migliorare la mente, il corpo e lo spirito. Ma questo viaggio rappresenta un’interpretazione estrema di quello che i ricercatori che afferiscono a una moltitudine di discipline ritengono che dovremmo introdurre nella nostra quotidianità. Si tratta in parte di una rinaturalizzazione, in parte di un ricablaggio. I vantaggi che riserverà mi paiono onnicomprensivi.
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