Essere un narratore significa mettere un “c’era una volta” davanti a tutto quello che ti si presenta lungo il cammino, e negli anni ho imparato che dentro a ogni essere umano e a ogni cosa si nasconde un piccolo universo. L’errore più grande che un autore possa fare, e allo stesso tempo il più comune, è convincersi che solo alcuni di noi abbiano una storia interessante alle spalle. Non è così. Ce l’hanno, ce l’abbiamo, tutti.
La vicina di casa, il cassiere del supermercato, l’impiegata delle poste, l’avvocato delle assicurazioni, la studentessa universitaria, la signora con il bastone che trascina il carrellino della spesa, chiunque in questo momento si trovi attorno a voi nel vagone della metro, o che il vostro occhio scorga dalla finestra di casa o dell’ufficio, nasconde dentro di sé, da qualche parte, delle anse di racconto straordinarie. E sì, anche le persone con la vita all’apparenza più monotona possono avere dentro una storia potentissima, tanto quanto quella dello scrittore che gira il mondo e torna con mille aneddoti e avventure da raccontare. Basta avere voglia di non fermarsi alle apparenze, di bucare la crosta esterna, di immergersi nelle vite degli altri.
Ma bisogna tenere sempre a mente che le cose non sono mai interessanti da sole. È il nostro sguardo a renderle tali. E mi ci è voluto del tempo per capire una verità molto importante: lo sguardo è come un muscolo. Si può allenare. Si può allungare, rafforzare. Può diventare capace di vedere cose che prima non vedeva, di tracciare forme unendo puntini che prima erano solo tali. Certo, non avviene così, con uno schiocco di dita. Ci vogliono tempo, pratica, esperienza. E anche un po’ della maturità che la tessera punti della vita ci regala per ogni anno, lustro o decennio in più che trascorriamo su questo pianeta.
È il raggio del nostro sguardo a rendere grande, o interessante, o curiosa una storia. È quanto lontano riusciamo a vedere, quanto a fuoco riusciamo a mettere i dettagli.
A questo proposito mi viene in mente il celebre quesito filosofico di Berkeley: se un albero cade nella foresta, senza che ci sia nessuno nei paraggi a sentirlo, fa rumore? Se per rumore si intende la serie di vibrazioni prodotte dalla caduta, ovviamente sì. Ma se intendiamo l’esperienza cosciente di quel suono, di fatto nessun essere umano l’ha vissuta. Nessun orecchio ha sentito quel suono. E quindi è come se non fosse mai esistito.
Spesso, però, ci dimentichiamo di avere una percezione molto limitata della realtà che ci circonda. I nostri sensi riescono a captare solo ciò per cui sono programmati, muovendosi all’interno di un preciso recinto percettivo che ci illudiamo rappresenti tutta la realtà. Per esempio, possiamo cogliere suoni fino a una frequenza massima di hertz (in media circa quindicimila). Oltre questa soglia, di fatto, siamo sordi e non sentiamo l’albero che cade. Anche il nostro range visivo è limitato: i palazzi di CityLife che vedo dalla mia finestra a Milano sono sagome scure di cui non riesco a mettere a fuoco nessun dettaglio, mentre sono completamente cieco rispetto allo sterminato mondo di microbi e batteri che proliferano ovunque intorno e addosso a me. E purtroppo – o per fortuna – non ho l’olfatto sovrumano di Grenouille, il protagonista di Profumo.
Per esistere un rumore ha bisogno di un orecchio che lo senta, un oggetto di un occhio che lo veda, un odore di narici che riescano a coglierlo.
Lo stesso vale per la nostra immaginazione e per il nostro sguardo sulle storie che ci circondano. Solo che, mentre le nostre capacità sensoriali generalmente non superano una certa soglia (anzi, tutt’al più si logorano e calano con l’età), la nostra immaginazione è potenzialmente illimitata.
Prendete due scrittori e metteteli di fronte a un albero. Probabilmente i loro occhi e le loro mani vedranno e sentiranno gli stessi colori e le stesse forme per cui sono stati programmati. La ruvidità del tronco e le sue tonalità di marrone. La consistenza delle foglie e la dominante verde scuro.
Ma il loro sguardo su quell’albero potrebbe portarli a vederlo in modi completamente diversi. Uno dei due, magari, non gli darà nessuna importanza e guarderà oltre. L’altro invece resterà lì, perché ci ha intravisto un intero universo. Comincerà a girarci intorno, osservandolo centimetro per centimetro e chiedendosi quanti anni o decenni abbia. Scoprirà che sul tronco c’è della resina, e avvicinandosi alla corteccia noterà, qua e là, delle macchie verdi di muschio che gli sembreranno isole o città. Poi vedrà una colonia di formiche, e resterà lì per ore a osservarle muoversi su e giù, come se la forza di gravità non le riguardasse minimamente. Da quanto tempo abitano su quel tronco? Hanno combattuto guerre con altre specie di formiche, per conquistarlo? Quanto tempo fa? Anni? Decenni? Secoli? Hanno anche loro una regina, come le api? Hanno più regine contemporaneamente? Se così fosse, saranno in guerra fra di loro, come i clan che nel Quattrocento hanno insanguinato le pianure scozzesi sotto il cielo grigio di Harlaw?
Lo scrittore poi prenderà una scala e salirà più in alto, dove in un altro punto della pianta scoprirà che una famiglia di uccelli ha occupato un incavo per costruircisi una casa. E si farà mille domande anche su quelli. Li osserverà per giorni. Si chiederà se sono appena arrivati o da quanto stanno lì, in un punto imprecisato nel passato, un capostipite ci si è fermato per caso, come un veliero che per sfuggire a una tempesta in pieno Pacifico approda su un’isola mai vista prima da occhio umano.
Quali altri esseri, microscopici e non, vivono intorno o dentro a quell’albero? Quanti ci hanno vissuto in passato, prima di migrare altrove o estinguersi? Quali altre comunità vivono sulle foglie dei rami più alti e lontani da terra? E dove arrivano le radici nascoste della pianta? Chi le abita?
Le possibili domande sono potenzialmente infinite. E sono lo strumento con cui scaviamo assieme alla nostra immaginazione.
Dopo averlo visto, esplorato e toccato, e dopo averne fotografato mentalmente ogni dettaglio e ogni colore, rimasto ormai solo all’ora del tramonto, lo scrittore penserà:
C’era una volta un albero.
E magari deciderà di scriverci un racconto. O un libro. O un intero documentario. O un podcast. Ma questo avverrà solo se quella pianta gli sarà risuonata dentro. Se l’avrà studiata palmo a palmo. Se l’avrà vista come una piccola galassia in scala. Se si sarà innamorato perdutamente. Se ne sarà ossessionato. Se avrà voglia di tornare a trovarla più e più volte, osservandola mutare, trovando cicatrici nuove, scoprendo quanto possa deprimersi in inverno e rinascere con la bella stagione.