Riccardo Pittis
Il dovere/diritto di rialzarsi
Teoria e pratica della sconfitta dall'ex campione dell'era d'oro del basket italiano, drogato di vittoria e terrorizzato dall'idea di perdere.
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Quando sei uno sportivo di successo dai tutto per scontato. Guadagni venti/venticinquemila euro al mese e ti sembra normale. Poi finisce la carriera e non vedi più un centesimo, ma la tua testa è ancora programmata su profitti e spese da campione. Così cominci a vivere al di sopra delle tue possibilità, e cominciano i guai seri. Quando ho toccato il fondo, ho scavato per un bel po’, perché avevo ancora la mentalità di un adolescente immaturo che deve solo alzare la mano per attirare l’attenzione di qualcuno pronto a servirgli riverente tutto ciò che desidera. Ero stato abituato così dalla mia famiglia, da mia madre in primo luogo, e poi dalla pallacanestro. Al netto dell’impegno con cui mi ero allenato tutti i giorni in palestra, la verità è che avevo vissuto in un mondo ovattato di comfort e privilegi, dove non avevo avuto bisogno di crescere, di diventare adulto. Poi nella vita reale ho scoperto che quando alzavo la mano, nessuno correva a chiedermi che cosa volessi. Il successo acquisito da piccoli può essere pericoloso, perché interrompe il corso naturale delle esperienze, che comprendono di norma tonfi, cadute, e fallimenti. Il successo rende tutto facile, e ti illudi che questa sia la regola, mentre di fatto è l’eccezione.
In più, ogni campione dello sport è un drogato, e quindi lo ero anche io. Ma niente equivoci, non mi facevo di sostanze illegali, le mie droghe erano perfettamente naturali, e autoprodotte. Ci pensava il mio corpo superstimolato da un costante turbine di emozioni inebrianti. La biochimica di chi vive sul campo di gioco è unica, gli stati d’animo spesso in stato di picco. Noi sportivi proviamo emozioni fra le più intense, viviamo in una condizione alterata di euforia, entusiasmo, trepidazione ed estasi che pochi altri individui sperimentano nel corso della vita. Per noi queste montagne russe emotive durano decine di anni, e la nostra chimica ne risulta modificata radicalmente. Adrenalina, dopamina, serotonina, endorfine: il pacchetto completo dei regolatori dell’umore. Nei miei anni da cestista sono stato un sorridente “biotossico”. Ma non sempre. Nel compendio delle sostanze, ci metto anche il cortisolo, l’ormone dello stress. Oh sì, è così quando prendi sul serio il basket come io lo prendevo, ossia quando niente è più importante, vincere è tutto, e la sconfitta equivale alla perdita di sé, all’annichilimento. Allora perdere è il tuo peggiore incubo e la sconfitta è umiliante, la cosa peggiore che ti possa accadere.
Eccovi un piccolo segreto: gli sportivi vogliono vincere, sì, ma soprattutto sono allergici alla sconfitta. Un tizio disse una volta: “Vincere non sarà mai bello quanto è brutto perdere, perché la sensazione della sconfitta è molto più prolungata.” Non è solo questione di vincere, è questione di non perdere. E siccome nel basket non esiste pareggio, non resta che fare almeno un punto in più degli avversari. Un canestro, uno smarcamento, un furto di palla, un passaggio ben riuscito. Io vivevo per questo. E il pubblico! Migliaia di persone che gridano il tuo nome, un tuono di esultanza che accompagna i tuoi giochi di prestigio. Sei un mago e quando tiri il pallone vola e vola e vola seguito da migliaia di occhi spalancati mentre il tempo si prende una vacanza. E lui, sia benedetto il pallone, entra nel cesto con un sibilo, un sospiro orgasmico. Braccia al cielo, i tifosi esplodono in un grido liberatorio che fa tremare le pareti del palazzetto. E vai di ormoni e neurotrasmettitori! Un’altra overdose di vita e successo. Scambi un cinque con un compagno di squadra, alzi le braccia, ti senti un dio. Il tuo cocktail biochimico te lo conferma. Ma l’altra verità è che sei strafatto e non te ne rendi conto, perché ormai essere costantemente su di giri fa parte di te, ti rende un atleta migliore, una persona nata per vincere, pura energia.
Poi, un giorno, le partite finiscono e scopri che non c’è nessuna San Patrignano in cui gli ex professionisti dello sport possano imparare ad abituarsi alla grigia vita di tutti i giorni, quella che chiunque non sia cresciuto fra gli applausi ha avuto modo di imparare a valorizzare. Io non avevo idea di come si vivesse nel mondo reale. Ero un ex tossicodipendente inconsapevole. La mia droga era la vittoria. Un bel casino.
Oggi, ai miei clienti spiego che devono innanzitutto liberarsi della paura di perdere e, cosa ancora più importante, comprendere l’immenso valore generativo della sconfitta. Ma la teoria ha i suoi limiti, e per questo a tutti loro, per prima cosa, racconto la mia
vita, come mi accingo a fare su queste pagine anche con voi. Se le storie sono strumenti per vivere, quelle delle vite degli altri possono essere mezzi per capire e migliorare la propria. Chi cerca in me un coach per via della mia reputazione di giocatore di basket vincente si ritrova a frequentare in prima battuta un percorso di approfondimento di teoria e pratica della sconfitta, perché non è quest’ultima a fotterci, ma la paura che nutriamo nei suoi confronti. Non è curioso? Siamo spaventati non solo dalle sconfitte reali, ma perfino dall’idea di parlarne. È tutta una questione di orgoglio, ma, come dice Vasco Rossi, “ne ha rovinati più lui del petrolio”.
Fra gli individui particolarmente competitivi l’orgoglio abbonda in misura esponenziale, ed ecco spiegato perché le biografie degli atleti si soffermano in particolare sui trionfi, mentre tendono a glissare sulle fasi oscure o deprimenti, che in realtà costituiscono il più delle volte capitoli cruciali nella crescita dei protagonisti come sportivi e come esseri umani. Ho una mezza idea che i social network abbiano dato una sponda gigantesca alla nostra riluttanza a mostrarci per quel che siamo, imperfezioni incluse. Online siamo tutti perfetti, una versione riveduta e corretta della nostra quotidianità, senza sconfitte. Ma in fin dei conti il problema non è la sconfitta in quanto tale bensì la vergogna della sconfitta, un sentimento che in Italia trova terreno fin troppo fertile. Una questione storica e culturale, suppongo. Altrove si considera perfettamente normale che si possa subire una sconfitta, e altrettanto ovvio che si abbia il dovere/diritto di rialzarsi e di ricominciare. Senza sentirsi mai dei perdenti.
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