Nel giugno 2012, poco dopo aver detto a Jim Citrin che era pazzo ma prima di essere invitato a diventare il nuovo CEO di Best Buy, mi sono recato in un negozio Best Buy di Edina, un sobborgo di Minneapolis. Fare il mystery shopper faceva parte della mia due diligence sull’azienda. Non c’è modo migliore per valutare la temperatura di un rivenditore in difficoltà che visitare un negozio e comprare qualcosa.
Appena varcato l’ingresso, mi sono trovato in un antro deserto, buio e poco accogliente. C’erano pochi acquirenti. Ho girovagato per le corsie polverose, tutto solo. Alla fine mi sono imbattuto in tre o quattro commessi che indossavano le caratteristiche magliette blu di Best Buy. Erano occupati a parlare tra loro, disinteressati a scoprire cosa stessi cercando e come aiutarmi.
Avevo deciso che la mia esperienza di shopping sarebbe consistita nell’acquisto di una protezione per lo schermo del mio telefono. Trovo queste cose difficili da applicare e penso sempre di sbagliare. Quindi, ne ho preso uno da uno scaffale e mi sono avvicinato alle magliette blu, interrompendo la loro conversazione per chiedere se me lo avrebbero installato. Sì, risposero senza troppa energia. Lo avrebbero fatto. Per diciotto dollari.
Sono rimasto sbigottito. Diciotto dollari? Veramente? Avrei anche potuto risparmiarmi la scocciatura e la spesa e acquistare la mia protezione per lo schermo online.
Ho pensato che l’approccio dei commessi derivasse da una politica aziendale. Potevo facilmente immaginare che fosse stato detto loro di trarre il massimo da ogni cliente e di assicurarsi di sfruttare ogni possibile circostanza per aumentare gli incassi.
Per me, l’esperienza del mystery shopping è stata un fallimento. Il livello di disimpegno dei commessi è stato impressionante. Si sono limitati a fare il minimo indispensabile, rispondendo alle mie domande solo se sollecitati. È evidente che non avevano alcun interesse ad avviare un dialogo significativo con me per capire di cos’altro avrei potuto avere bisogno. Una semplice transazione come acquistare una protezione per lo schermo e farmela installare mi è sembrata un po’ come una tortura. Sì, mi hanno aiutato, ma era evidente che il lavoro non procurava loro alcuna gioia, e il loro atteggiamento e il loro modo di lavorare non mi hanno dato alcuna ispirazione, come loro cliente.
Qualche giorno dopo ho visitato un altro negozio vicino alla sede centrale di Best Buy a Richfield. Questa volta avrei comprato un telefono cellulare. Mi sono sentito subito motivato: il negozio era ben illuminato e non sembrava polveroso. Ho persino trovato un telefono cellulare lg in vendita alla cifra principesca di zero dollari. (Eravamo ai tempi in cui i negozi ricevevano dai gestori telefonici delle ricompense per far aderire le persone ai loro piani, quindi usavano i telefoni gratis come incentivo.) Il personale del reparto cellulari era cordiale. Dopo aver chiesto al commesso di attivare il servizio, comprese le chiamate internazionali, ho lasciato il negozio, felice. Forse la mia esperienza nel negozio di Edina era stata una sfortunata eccezione?
Quel pomeriggio, però, ho provato a chiamare mia figlia in Francia usando il mio telefono nuovo di zecca. Niente da fare. Non mi permetteva di effettuare chiamate internazionali. Questo mi ha portato nel mondo kafkiano del servizio clienti. Per prima cosa ho chiamato il negozio e ho chiesto di passarmi il reparto telefonia mobile. Non ha risposto nessuno. Ho provato a chiamare il call center e a parlare con un addetto, che non è stato in grado di aiutarmi. Alla fine ho dovuto andare di nuovo in negozio per risolvere il problema. Per me è stato un caso emblematico di un’azienda che sembrava concentrarsi di più su come vendere un prodotto che su come cercare di aiutare davvero i clienti.
L’azienda si stava dando la zappa sui piedi da sola, dato che i suoi addetti di frontline non sapevano, o non avevano più voglia di mettersi davvero in gioco con i clienti e soddisfare le loro esigenze.
Il disimpegno sul lavoro è un’epidemia globale
Purtroppo, le magliette blu di Best Buy che ho incontrato durante il mio esperimento di mystery shop nel 2012 non erano un caso isolato. La maggior parte dei lavoratori, in tutto il mondo, prova indifferenza, nel migliore dei casi, per l’attività che svolge o l’azienda in cui lavora. Quello che fanno non li entusiasma e, di conseguenza, non sono spinti a dare il massimo in termini di impegno, energia, attenzione e creatività. L’adp Research Institute ha cercato di dare un numero esatto a questa epidemia globale, intervistando oltre 19.000 lavoratori in 19 Paesi del mondo. È emerso che solo il 16% si sente “pienamente coinvolto” sul lavoro. Significa che più di otto lavoratori su dieci si limitano a fare atto di presenza: un numero sconcertante. Anche se i livelli di disimpegno variano da Paese a Paese, si tratta chiaramente di un fenomeno mondiale.
È una tragedia in termini di potenziale personale inespresso, perché trascorriamo una parte significativa della nostra vita al lavoro. Quanto talento e quante motivazioni vanno sprecate! A milioni di persone è negata la possibilità di essere ispirate sul lavoro, di prosperare e di dare il meglio di sé.
È una tragedia anche in termini di potenziale economico inespresso, perché studi su studi confermano come l’impegno influisca positivamente sulla produttività, riduca il turnover dei dipendenti, aumenti la soddisfazione e la redditività dei clienti e riduca persino gli infortuni sul lavoro. Si stima che questa epidemia di disimpegno costi ben 7.000 miliardi di dollari in perdita di produttività. Come i dipendenti di Best Buy che ho incontrato nel negozio di Edina, la maggior parte delle persone timbra il cartellino e se la cava, mettendo a disposizione solo una frazione dell’energia, della creatività, della potenza cerebrale e delle emozioni di cui dispongono.
[...] Immaginate questo scenario: Jordan è un bambino di tre anni il cui giocattolo preferito è un T. rex ricevuto per Natale. Purtroppo la testa del T. rex si è rotta e il piccolo è distrutto. La mamma lo accompagna in lacrime al grande magazzino locale dove, all’insaputa di Jordan, Babbo Natale ha comprato il T. rex originale. La donna spiega la situazione a due commessi.
Dei commessi disinteressati indirizzerebbero la mamma di Jordan verso gli scaffali dei giocattoli e la lascerebbero scegliersi un prodotto in sostituzione. Nella migliore delle ipotesi, Jordan avrebbe un nuovo T. rex, ma dovrebbe gettare il suo amato vecchio giocattolo nella spazzatura. I commessi si sentirebbero sollevati nel vederlo lasciare il negozio e aspetterebbero la fine della loro giornata di lavoro.
Questo è quello che succede di solito. Ma se ci fosse un approccio alternativo? Se scegliessimo di vedere il lavoro non come una maledizione, ma sotto una luce radicalmente diversa? E se la scelta che facciamo tra queste due visioni influenzasse notevolmente il nostro modo di rapportarci al lavoro?
Possiamo scegliere di trattare il lavoro come quello che io ritengo sia: un elemento essenziale della nostra umanità, una chiave per la nostra ricerca di significato come individui e un modo per realizzarci nella vita. Come ha detto con parole eloquenti il poeta Khalil Gibran in una poesia dedicata al lavoro, credo che il lavoro sia amore rivelato.
Vi è sempre stato detto che il lavoro è una maledizione e la fatica una sventura.
Ma io vi dico che quando lavorate realizzate una parte del sogno più remoto della terra,
a voi assegnata quando quel sogno nacque.
Ed è nel mantenervi con fatica che voi in verità amate la vita.
E amare la vita attraverso la fatica significa essere molto prossimi al suo segreto più profondo.
Questa prospettiva ha plasmato il mio modo di affrontare il lavoro. In qualità di CEO, il mio compito era anche quello di incoraggiare ogni individuo di Best Buy a riflettere su come affrontare il proprio lavoro.
[...] Torniamo a Jordan e al suo T. rex giocattolo rotto. Non si tratta di un episodio di fantasia. Jordan e sua madre sono due persone reali, che nel 2019 sono entrate in un negozio Best Buy in Florida. Ma i due commessi non si sono limitati a indirizzare la mamma di Jordan verso uno scaffale o a consegnarle un giocattolo nuovo in scatola. Si sono trasformati in dottori. Hanno immediatamente preso in consegna il dinosauro rotto per praticargli un “intervento chirurgico” dietro il bancone, dove di nascosto lo hanno scambiato con uno nuovo mentre raccontavano a Jordan la procedura salvavita che stavano eseguendo sul suo “bambino dinosauro”. Dopo aver prolungato per qualche minuto il racconto del salvataggio, hanno consegnato il dinosauro “guarito” a un Jordan emozionato e raggiante. Per i due commessi di Best Buy, il lavoro non significava riscuotere uno stipendio. Non si esauriva nel vendere un nuovo giocattolo. Consisteva nel far tornare il sorriso sul volto di un bambino.
L’applicazione di questo umanissimo senso dello scopo al lavoro cambia il modo in cui lo affrontiamo e quindi il nostro impegno. Rende il lavoro sempre facile e divertente? No. Tutti hanno giornate storte. Ogni lavoro ha le sue sfide. La sensazione personale di avere uno scopo non è di per sé l’unica cosa che accende le persone al lavoro, ed è per questo che il libro che state leggendo ha più di due capitoli. Ma essere in grado di collegare ciò che facciamo ogni giorno con un senso più ampio del perché lo facciamo ci aiuta a infondere in noi energia, slancio e direzione. E questo è un buon inizio: che siate muratori, guardiani di uno zoo, magliette blu o amministratori delegati.