Michael Morris
Siamo animali tribali
Da soli possiamo fare così poco; assieme possiamo fare così tanto.
Tempo di lettura: 6 minuti
Aristotele definiva l’uomo un “animale sociale”. Ma non siamo soltanto noi a essere sociali. I lupi corrono in branco. I pinguini si stringono in un abbraccio per conservare il calore. Se si perdono, gli elefanti si chiamano per ritrovare la strada.
Gli esseri umani non sono neppure la specie più sociale. Formiche, api e termiti surclassano gli umani in diversi parametri di socialità. Miriadi di insetti imparentati fra loro vivono assieme senza intoppi nel loro comportamento e prendendosi cura dei propri piccoli. Ma se le colonie di insetti sono impressionanti dal punto di vista sociale, va detto che non è il nostro tipo di vita sociale. Le api costruiscono sempre e soltanto alveari esagonali, le formiche marciano in lunghe file e le termiti sciamano muovendosi a zigzag. Questi schemi ricorrono e si possono prevedere perché sono geneticamente programmati e portati a termine grazie ai feromoni. Noi siamo più liberi, meno rigidamente programmati dalla genetica, e dunque i nostri modelli sociali possono essere più diversi e dinamici. Ogni gruppo balla la sua particolare danza, e queste coreografie cambiano nel corso delle generazioni. Pensiamo e agiamo comunque in modalità compatibili con quelle di chi ci sta attorno, ma è per via dei modelli formati e coltivati, non esclusivamente per cause naturali.
I nostri parenti più prossimi in termini evolutivi, gli scimpanzé, posseggono un po’ della stessa libertà comportamentale. Gli scimpanzé possono scegliere se collaborare o competere con un vicino. Per stringere un’alleanza, lo scimpanzé ha bisogno di legare con i suoi simili del gruppo attraverso la spulciatura, un processo che richiede del tempo. Questa necessità di amicizia diretta limita la possibilità di allargamento della cooperazione. Quando un branco di scimpanzé si espande oltre i cinquanta membri, ci si divide in fazioni rivali. Metti un centinaio di scimpanzé che non si sono mai visti prima su un’isola e il risultato sarà un bagno di sangue. Una Manhattan degli scimpanzé, in cui milioni di estranei si grattano l’un l’altro la schiena, è inconcepibile.
Anche gli umani cooperano a seconda dei legami di parentela e amicizia, ma abbiamo anche altri collanti sociali più potenti che le altre specie non hanno. Dalla prima Età della pietra abbiamo cominciato a evolvere funzioni della mente che facilitano la condivisione del sapere in gruppi. Se qualcuno nel tuo gruppo di cacciatori raccoglitori trovava un modo per staccare le noci di cocco da un albero, avresti appreso il segreto guardandolo all’opera, e in breve tempo tutto il gruppo avrebbe saputo come fare. Dopodiché si sarebbe potuto lavorare assieme seguendo lo stesso copione. In questo modo, gruppi che vivevano in ecosistemi diversi hanno sviluppato diversi bacini di conoscenze comuni: insomma, culture diverse. Membri di ciascun gruppo hanno ottenuto una più piena comprensione reciproca: anche se il soggetto non sono le noci di cocco, il terreno comune che è scaturito da quell’esperienza può tornare comodo in altre faccende di vita o di morte. L’appartenenza ai gruppi diventerà sempre più manifesta nei comportamenti, rendendo i compagni più simili, prevedibili e simpatetici fra loro. I nostri antenati faranno così esperienza di quel “noi” che è un’espansione della propria identità, andando oltre il legame di vicinanza o amicizia per divenire parte di un gruppo più grande. Per mostrare la propria appartenenza, questi grandi clan cominceranno a adornarsi e a trovare un particolare stile di abbigliamento. Allo stesso tempo, il cervello umano continuerà a evolvere e trovare nuovi tipi di conoscenza da condividere, come la reputazione all’interno di questi gruppi più ampi, il che concorrerà ad aumentare le nostre capacità in quanto animali sociali. Col tempo, le interazioni che prevedranno nuove forme di conoscenza, come i rituali, si diffonderanno trasversalmente ai clan, contribuendo a forgiare reti di condivisione più ampie di sodali, risorse e conoscenze.
Gli umani cominceranno a provare solidarietà in queste comunità così vaste (migliaia di persone che vivono in piccoli gruppi all’interno di gruppi più ampi) tenute assieme dal collante della medesima conoscenza culturale. Questa forma di organizzazione sociale non è l’alveare né la legione, bensì la tribù. La sopravvivenza grazie a questa condivisione di informazioni all’interno di gruppi solidali e conchiusi è quel che possiamo definire vita tribale. Aristotele se ne farà una ragione, ma è fuorviante chiamare gli esseri umani “animali sociali”; per dirla in maniera più accurata, siamo “animali tribali”.
La parola “tribù”, tuttavia, si porta dietro un bagaglio mica da ridere. La sua origine affonda nel termine latino tribus, applicato ai gruppi culturali e locali che hanno fondato l’antica Roma. Arriva in inglese (e in altre lingue) come traduzione biblica delle dodici tribù di Israele. All’epoca di Shakespeare, veniva utilizzata per riferirsi al popolo ebraico, ai clan germanici e alle società del Nuovo mondo. Soltanto durante l’era dell’espansione coloniale la parola “tribù” assume quella sfumatura peggiorativa legata all’aggettivo primitiva. Gli esploratori europei avevano tutto l’interesse a classificare come tribù “selvagge” o “barbare” le popolazioni indigene che incontravano in differenti stadi di sviluppo, piuttosto che riconoscerle come società civili. Lasciate indietro dalla ruota della storia, avevano bisogno dell’influenza civilizzatrice degli eserciti europei, dei missionari e delle scuole. Queste categorie erano tutte politiche, non scientifiche.
Man mano che l’antropologia faceva passi avanti come disciplina, caddero queste concezioni relative agli stadi evolutivi, e l’idea di tribù prese a essere usata in senso molto ampio. Seguirono numerosi sforzi per chiarire questa nozione almeno strutturalmente in termini di vicinanza, autorità e continuità, cionondimeno non si fecero progressi in tal senso.
Più venivano studiate le popolazioni indigene, più aumentavano le eccezioni che vanificavano ogni criterio strutturale: tribù senza un capo, tribù con membri perlopiù adottati da altri gruppi, tribù che avevano cambiato lingua, religione o il loro mito di fondazione. Le prove che arrivavano da indagini etnografiche scrupolose divergevano così nettamente dalle immagini classiche di tribù con strutture gerarchiche, legami e tradizioni fissi e codificati, che molti antropologi abbandonarono la nozione di tribù, deducendo che lo stesso concetto non fosse che un miraggio colonialista. Alcuni estesero questo rifiuto alla teoria della cultura come motore del comportamento, spiegandosi le “vacche sacre” dell’India come qualcosa che aveva a che fare con le condizioni del suolo più che con i miti indù.
[…] In questo libro, pelerò la cipolla del nostro talento, tutto umano, di condividere all’interno di gruppi, e distingueremo tre strati di “istinti tribali”. Ebbero origine nell’Età della pietra, ma questi sistemi si sono evoluti e possiamo ancora riconoscerli nelle nostre menti e nei nostri cuori di oggi. Quando guardiamo di sottecchi un compagno di classe, un collega o un vicino, stiamo esercitando quell’istinto del branco a cui fa capo anche il desiderio di includere le loro esperienze nelle nostre azioni e decisioni quotidiane. La nostra fascinazione verso le celebrità, i ceo o i grandi sportivi arriva dritta dal nostro istinto dell’eroe, così come i nostri sogni di gloria e la voglia di dare un contributo. Lo sguardo rivolto al passato e la nostalgia fanno, invece, parte di un istinto ancestrale, come pure allo stesso modo il piacere che ricaviamo dalle tradizioni e il senso del dovere che avvertiamo nel mantenerle. Questi istinti sono le tre personalità che si trovano in ogni individuo: il conformista che ricerca l’appartenenza e la comprensione, l’artefice che sogna stima e tributi, e il tradizionalista che esige la continuità. Ciascuno di questi sistemi ha le sue falle ma – come vedremo – tutti servono a guidare le persone verso l’adattamento.
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