A metà degli anni Cinquanta del Novecento, a Bangkok, è stata costruita una nuova autostrada in un luogo in cui sorgeva un tempio antico e i monaci sono stati costretti a spostare una gigantesca statua d’argilla del Buddha che era amata e venerata da generazioni. Quando si è cominciato a sollevare la statua con una gru, però, l’argilla ha iniziato a creparsi. Velocemente gli operai hanno rimesso la statua a terra e, dal momento che si avvicinava una tempesta, l’hanno coperta con una tela cerata. Più tardi quella sera, l’abate del tempio si è recato sul posto per ispezionare il danno e per assicurarsi che la statua non si bagnasse. Dirigendo il fascio di luce della torcia sotto la tela cerata, ha notato un bagliore di luce riflessa che proveniva dalla crepa principale. Guardando più da vicino si è domandato se ci fosse qualcosa sotto lo spesso strato d’argilla. Così è corso a svegliare gli altri monaci e, insieme, con scalpelli e martelli hanno cominciato a colpire lungo le crepe. Il raggio di luce è diventato sempre più brillante fino a quando, finalmente, dopo molte ore di lavoro, i monaci, facendo qualche passo indietro, hanno potuto ammirare, pieni di meraviglia, la vista che si presentava davanti a loro: un Buddha totalmente d’oro.
Gli storici ritengono che siano stati gli stessi monaci del tempio, centinaia di anni prima, a ricoprire la statua d’argilla. Prevedendo l’attacco di un esercito nemico, speravano di proteggere il loro prezioso Buddha dal furto o dalla distruzione. I monaci sono stati tutti uccisi in una successiva battaglia, ma la statua si è mantenuta intatta. Quando i monaci raccontano oggi questa storia, dicono che, per affrontare sfide e minacce, ognuno di noi ha un proprio modo di nascondere l’oro. La sofferenza nasce quando ci identifichiamo con la corazza che ci protegge e dimentichiamo la consapevolezza amorevole che è intrinseca al nostro essere.
Ricordare l’oro
Ho letto la storia del Buddha d’oro circa un mese dopo che il mio primo marito e io avevamo deciso di divorziare. Dal momento che Alex e io avevamo condiviso la pratica spirituale per circa un decennio, pensavamo che avremmo affrontato la separazione come amici e con rispetto. Invece, eccoci, intrappolati in uno stallo ostile, a litigare per le risorse finanziarie, per la custodia dei figli e molti altri dettagli. Vedevamo entrambi rosso, altroché oro! Nella speranza di evitare un po’ di amarezza, ho rimandato il momento in cui avrei detto a Narayan, nostro figlio di cinque anni, del progetto di separarci. Adesso, però, con l’immagine del Buddha d’oro nella mente, avevo cominciato a vedere il biasimo e la diffidenza reciproci come una copertura d’argilla. Così mi sono ricordata di quanto Alex volesse bene a nostro figlio, ho ripensato alle sue mani in grado di guarire e a quanto fosse meraviglioso con le piante, gli animali e i bambini piccoli.
Quell’immagine mi ha aiutata a ricordare come l’amore fosse ancora lì, sotto la paura e la rabbia. Nei giorni successivi, continuavo a ripensare all’immagine del Buddha d’oro e ogni volta mi sentivo rassicurata dalla certezza che stavamo attraversando un momento difficile, ma ce l’avremmo fatta, preservando la nostra amicizia. Una sera, circa una settimana più tardi, ho raccontato la storia del Buddha d’oro a Narayan. Poi gli ho detto che papà e io non avremmo più vissuto insieme, spiegandogli che lo amavamo ancora e ci saremmo entrambi presi cura di lui. La sua prima risposta è stata: “Va bene.” Poi, dopo qualche momento di riflessione, ha aggiunto: “Ma vi volete ancora bene, vero?” Ho potuto rispondere “sì”, in tutta onestà e sincerità. “L’affetto è l’oro” ho detto a Narayan “e questo non cambia.” Se in quel momento avessi potuto andare avanti veloce a ventisette anni dopo, avrei visto Alex guardare, pieno di gioia, Narayan e sua moglie Nicole che coccolavano la loro bambina appena nata, mentre io, con la piccola Mia avvolta nella fascia, camminavo in riva al mare con mio marito Jonathan al fianco. Tutti noi emanavamo raggi di luce dorata.
Chi siamo realmente?
Spesso chiamo la nostra corazza protettiva “la tuta spaziale dell’ego”. La tuta spaziale è composta da tutte le strategie e le forme di difesa che sviluppiamo per soddisfare i bisogni di sicurezza, approvazione e amore, mentre affrontiamo le ferite e i conflitti presenti nella nostra famiglia e nella nostra cultura. Per quanto necessarie possano essere alcune difese, creano però anche sofferenza. Quando copriamo la nostra innocenza e purezza, la nostra vulnerabilità e tenerezza, perdiamo di vista l’essenza. Così mettiamo in relazione la nostra identità con la tuta spaziale e dimentichiamo l’oro.
Se ampliamo lo sguardo, riusciamo a vedere come questa limitazione della nostra identità sia una parte naturale della crescita evolutiva. L’attività primaria di ogni creatura vivente consiste nel rimanere aggrappata alla vita e nell’evitare le minacce. Abbiamo una membrana o delle scaglie o una pelle o un guscio per proteggerci. Abbiamo riflessi e competenze e strategie che ci consentono di trovare la nostra strada. Il cervello è progettato per percepire la separatezza e per reagire al pericolo. Quando noi umani siamo emersi come forma di vita su questo Pianeta, eravamo già organizzati intorno a un sé con desideri e paure e, per estensione, intorno a un piccolo gruppo o tribù cui appartenevamo. La nostra storia però non finisce qui. Dal momento che siamo Homo sapiens sapiens, siamo consapevoli di noi. La parte del cervello che si è evoluta più di recente, la corteccia prefrontale, ci dà la capacità di osservare e provare compassione per tutto ciò che accade in noi e negli altri. Come ha scoperto la neuroscienza, approfondire l’attenzione con la meditazione attiva le parti del cervello che sono in relazione con la consapevolezza di sé. Possiamo diventare consapevoli delle paure inconsce e delle convinzioni limitanti; possiamo accorgerci di come i bisogni insoddisfatti ci portino a voler continuare a indossare un’armatura e alimentino gli attaccamenti. E possiamo cominciare a vedere come l’intera percezione della nostra identità sia limitata e oscurata da queste corazze dell’ego. La consapevolezza e la compassione che Rain attiva in noi ci permettono di risvegliarci dallo stato di trance che ci imprigiona, proprio nel bel mezzo della vita quotidiana. Ogni volta che con una delicata pratica Rain riconosciamo lo spesso strato d’argilla che forma la nostra corazza, quello strato diventa un po’ più trasparente, mentre la paura e l’attaccamento si dissolvono. Sempre più risplende in noi ed emana da noi la luce dell’oro.