All’inizio del secolo scorso, in una cittadina del Midwest, circa 40 miglia a sud-est di Indianapolis, un banchiere acquistò un “carro senza cavallo”. Con il carro c’era un conducente, che si dà il caso fosse un arguto ingegnere, il quale convinse il banchiere che i motori diesel avevano un futuro brillante. Così i due uomini cominciarono a sperimentarli, costruirono una piccola fabbrica, e il banchiere continuò a investirvi una quantità crescente del patrimonio familiare, ma per vent’anni non si vide neppure l’ombra di profitto. Poi le cose cominciarono a migliorare, e oggi i motori diesel prodotti da Cummins a Columbus, nell’Indiana, equipaggiano molti degli autocarri che attraversano il continente.
Chi opera in quel settore non ha mai avuto vita facile. Quasi ogni anno una nuova crisi – il miglioramento di un prodotto della concorrenza, una scarsità di liquidità, un embargo petrolifero, nuove normative sulle emissioni – ha minacciato la sostenibilità dell’azienda. Ogni qualvolta il mercato l’ha sottovalutata ed esposta al rischio di una scalata, la famiglia ha rastrellato una quantità di azioni sufficiente a proteggerne l’autonomia. “Il motivo per cui lo facciamo,” spiega J. Irwin Miller, rampollo della terza generazione che gestisce l’azienda “è un obbligo che sentiamo verso la comunità. Avremmo potuto trasferirci dove il lavoro è meno caro, ma a che cosa serve fare più soldi se si devono sradicare migliaia di persone che conoscete e in cui avete fiducia?”