Alex Bellini
"Sapere di saper fare": un fattore determinante per il successo
Alex Bellini afferma l'importanza dell'autoefficacia nei successi sportivi come nella vita
Tempo di lettura: 6 minuti
Nel mondo altamente competitivo dello sport, la vittoria è spesso determinata dal margine più sottile. Una frazione di secondo, o millimetro, può sollevare un atleta fino a raggiungere altezze gloriose e affondarne un altro nelle profondità della sconfitta. Tradizionalmente, nell’esaminare le prestazioni sportive, i ricercatori e gli allenatori si sono concentrati sui fattori fisici. Tuttavia, la crescente consapevolezza della psicologia dello sport ha portato allenatori e atleti a riconoscere che, tra i fattori psicologici che svolgono un ruolo critico nelle prestazioni, un posto di rilievo è occupato dall’autoefficacia.
Nella sua forma di base, l’autoefficacia è la convinzione di saper svolgere un compito. È essenzialmente una questione di “saper di saper fare”. Sono capace di correre a questa velocità per tutta la durata della gara? Sono capace di servire la palla in modo efficace, potente e preciso? Sono capace di gestire lo stress che comporta giocare una finale a Wimbledon? La risposta che si ottiene, e il grado di certezza nella risposta, è un potente predittore del comportamento, infatti le ricerche svolte su diversi atleti dimostrano che i soggetti con un’elevata autoefficacia hanno livelli più alti di tolleranza al dolore, allo sforzo e più disposizione a perseverare davanti alle difficoltà rispetto ai loro colleghi con bassa autoefficacia.
Il concetto è abbastanza semplice: se so di potercela fare sarò più disposto a tenere duro più a lungo e ad andare avanti. Se, al contrario, la sfida o l’avversario supera le mie reali capacità, sarò meno disposto a resistere perché l’assunto di fondo è che questo non basterà per vincere o superare la sfida. Ce l’abbiamo tutti un amico che un giorno ha detto: “Non sono capace!” e ha abbandonato ogni interesse nell’attività che stava cercando di svolgere.
Apro una parentesi personale: nella mia carriera di esploratore ho vissuto momenti in cui mi sono sentito molto capace, forte e potente, ma anche momenti in cui non mi sono sentito neanche lontanamente in grado di gestire la sfida o svolgere il compito richiesto. Ricordo, in particolare, un giorno durante la traversata del Pacifico a remi del 2008 in cui le condizioni meteorologiche erano così avverse che ogni onda che colpiva la mia barca rischiava di capovolgermi. Ciononostante remavo, ma ogni due o tre remate dovevo fermarmi per aggrapparmi alla barca che veniva scossa violentemente.
Quel pomeriggio, però, fu un giorno straordinario perché remata dopo remata prendevo forza e coraggio, mi nutrivo della violenza con cui il mare mi sbatteva qua e là, e tanto più remavo tanto più aumentava la sensazione di potercela fare. Ricordo che a un certo punto, all’ennesima onda che mi scosse, mi rivolsi al mare e, con tono di sfida, urlai: “Ancora, più forte, non basta. Devi picchiare più forte!” Ciò che intendevo dire era che, per fermarmi, il mare avrebbe dovuto picchiare più forte. Quelle onde, che in altri giorni mi avrebbero fatto ritirare in cabina in attesa che il tempo migliorasse, in quel frangente erano linfa vitale, erano ossigeno per i miei muscoli, per le cellule di tutto il mio corpo e mi sentivo straordinariamente capace di gestire quella sfida.
Qualcuno potrebbe argomentare che un tale atteggiamento di sfida è difficile, se non impossibile, da mantenere nel lungo periodo perché estremamente dispendioso. È un'osservazione corretta, e infatti quel momento durò poco: l'indomani ero già più rilassato e dimesso, ma avevo avuto la dimostrazione che se volevo potevo. Avevo visto che anche con mare molto agitato potevo farmi strada verso l'Australia, si trattava solo di trovare la strategia più saggia per raggiungerla. Tutti gli atleti affrontano almeno una volta nella propria carriera sportiva momenti in cui le cose vanno storte. Potrebbe essere una caduta che costringe a ripartire dal fondo del gruppo di ciclisti o corridori, un problema tecnico che lo rallenta, un cambiamento meteorologico improvviso che costringe a rivedere i piani iniziali.
Fu un problema fisico quello che costrinse il mezzofondista americano Dave Wottle a una partenza lenta, nella finale degli 800 metri alle Olimpiadi di Monaco del 1972. Nelle settimane che precedettero la finale, il suo allenamento fu in parte compromesso da una tendinite a entrambe le ginocchia. Ciononostante, si fece convincere dal suo allenatore a prendere parte alla gara e a viverla come una seduta di allenamento veloce in vista della prova a cui puntava di più: i 1500 metri. Pochi metri dopo la partenza Dave Wottle era già ultimo degli otto atleti, distaccato di qualche metro dal corridore davanti a lui. Dopo duecento metri era così lontano dal gruppo che la televisione ormai non lo inquadrava più e il commentatore, a un certo punto, si chiedeva addirittura se Wottle fosse infortunato. Dave non si fece scoraggiare dal distacco e continuò a correre composto e con un buon ritmo. All’inizio del secondo giro di pista Dave era sempre ultimo, ma la distanza tra lui e il gruppo si era ridotta. O lui aveva preso coraggio e aveva aumentato l’andatura o il gruppo stava rallentando.
In ogni caso Dave cominciava a rimontare. All’ingresso dell’ultima curva Dave era nella pancia del gruppo. Ora che era rientrato nell’inquadratura della televisione, voleva prendersi anche un ruolo di protagonista nella gara. A metà curva Dave Wottle superò alcuni concorrenti, ora era quarto. In quel preciso istante il commentatore intuì che stava per accadere qualche cosa di mai visto prima. Mentre gli altri corridori avevano ormai esaurito ’energia e cercavano di portarsi al traguardo alla bell’e meglio, agitando le braccia come chi non sa nuotare e cerca di rimanere a galla, Wottle sembrava avere delle energie supplementari e uno dopo l’altro superò tutti, tagliando il traguardo per primo con pochi centimetri di vantaggio sul favorito, il russo Evgeni Arzhanov, che dallo shock di ritrovarsi fianco a fianco con Wottle inciampò a pochi metri dall’arrivo. Non sapremo mai se Wottle avesse studiato a tavolino quella tattica di gara o se davvero fosse stato rallentato dalla tendinite, ma quel che possiamo dire con assoluta certezza è che non si è fatto intimidire dalla difficoltà iniziale e non ha perso la convinzione di potercela fare.
Gli individui con un alto livello di autoefficacia sono in grado di superare le difficoltà che incontrano sul loro percorso e continuare a performare al massimo. Non si tratta però delle abilità che un individuo ha, quanto piuttosto del giudizio su ciò che si può fare con tali abilità. La maggior parte delle ricerche sull’autoefficacia nello sport si sono concentrate sull’autoefficacia del compito, ossia la sensazione di essere abili a svolgere con successo un compito. Tuttavia, le prestazioni nello sport si basano non solo sull’esecuzione fisica delle abilità motorie, ma anche sull’elaborazione cognitiva delle informazioni, strettamente collegata ai processi decisionali che devono essere estremamente accurati.
Mettiamo il caso che voi siate il portiere di una squadra di calcio. L’attaccante della squadra avversaria ha superato l’ultimo vostro difensore e ora si trova solo in area di rigore, faccia a faccia con voi. Sulla base della sua velocità, della sua posizione e dei movimenti della palla dovete decidere se rimanere tra i pali e attenderlo, oppure fare uno scatto in avanti, sorprenderlo e portargli via la palla dai piedi. Cosa fate in tale situazione? La situazione che vi ho appena proposto vi può aiutare a capire che esistono diversi tipi di efficacia. Infatti le convinzioni non sono solo limitate dalla capacità di completare un compito, ma anche dalla capacità di far fronte alle diverse minacce come lo stress, i pensieri negativi, il dolore o gli eventi imprevisti.
A questo proposito mi viene in mente un’interessante conversazione che ho avuto nel 2018 con Giorgio Calcaterra, considerato il re delle cento chilometri (ovviamente mi riferisco a corse a piedi di cento chilometri!), vincitore per dodici volte consecutive della 100 km del Passatore e di tre medaglie d’oro ai mondiali nella stessa disciplina. Alla domanda “Non hai mai pensato di correre gare più lunghe delle 100 km?”, lui mi rispose che non credeva di poter gestire il dolore che gare più lunghe comportavano.
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